Certe storie sono del tempo che, come il vento che non lascia in pace le foglie, le solleva, le tortura, le porta lontano e le riporta sotto all’albero dal quale sono cadute. La storia di Jean Pierre Monseré è passata anche da qui, da questa Brianza che nei pomeriggi d’autunno si lava via la sua faccia di terra dura e si illanguidisce.
Il Giro di Lombardia, nel 1969, per Jean Pierre, ragazzo belga di appena vent’anni, è una delle prime gare da pro. Jempi, lo chiamano. Forse per abbreviare il nome di battesimo, forse perché quel nomignolo ha qualcosa di simpatico che rievoca il suo carattere: buono, allegro, scanzonato. Quel mattino, Milano illuminata dal sole di ottobre accoglie anche lui tra i suoi partenti. E’ un novellino, Jempi, anche se da dilettante ha fatto cose mirabolanti: più di cento vittorie e un titolo di Campione del Mondo sfiorato. Forse nessuno sa che lui è in corsa quando sul Colle Balisio si comincia a gridare “Motta! Dancelli!”. Scattano in salita, assieme a Huysmans che alzerà bandiera bianca all’inizio del Passo d’Intelvi.
Battistrada che ondeggiano sui secondi: prima quaranta, poi quattro. Gianni Motta rilancia e se ne va solo. Due minuti. Tempo, e ancora tempo che quelli dietro si rimangiano tutto in una volta. Sul San Fermo lo riprendono. Poulidor, Gimondi, Bitossi, sono tutti lì. E c’è anche Jempi: è con loro, con i migliori, a pochi chilometri da una classica amata e sempre incerta, per quel tempo autunnale che a volte è dolce, a volte tremendo, proprio come la vita, proprio come la strada. Allo stadio Sinigaglia di Como entra, per primo, Franco Cuore Matto Bitossi ma le energie lo abbandonano: Gerben Karstens e Jean Pierre Monseré lo superano e volano verso il traguardo. L’olandese Karstens ha la meglio. Il Giro di Lombardia del 1969 è suo. A Jempi rimane il bottino del secondo posto che non è poi tanto magro: è arrivato lì, con le sue gambe da neo pro. E’ arrivato lì, alle costole dei migliori, ne ha sentito il respiro, la fatica.
Ma la sorpresa arriva pochi giorni dopo. Karstens risulta positivo al controllo antidoping e la vittoria scivola inaspettata nelle mani del secondo classificato. Jean Pierre Monseré, a poco più di vent’anni, ha vinto una corsa leggendaria. Qualcuno potrebbe dire che le vittorie a tavolino sono vittorie di Pirro, che valgono quello che valgono, che riempiono i palmares ma non i cuori. Ma le vittorie sono sempre vittorie. Hanno sapori diversi, braccia alzate o sorrisi accennati, eppure anche queste, quelle che si trovano per caso per le mani sono traguardi di onestà.
E Jempi vuole dimostrare che la sua non è stata solo fortuna o eccesso di tenacia. Che lui è un campione vero, che non solo sa stare dietro ai più forti ma sa anche andare oltre, fino ad un arrivo solo suo.
La vita è strana come la morte. Passano giorni fragorosi attaccati a un battito silenzioso che quando si ferma fa più rumore di ogni altra cosa. Il cuore di Jempi si è fermato quel giorno, in quel momento. Sulla strada, il posto che aveva amato più di tutti, dove era cresciuto, dove stava pedalando il suo sogno.
La vita è strana, forse proprio perché dopo tutto questo pedalare e correre e menare non sappiamo cosa ci sia. E il ciclismo assomiglia all’esistenza anche lì, proprio nel punto dove si spezza. Rimangono. Tutto quello che è stato rimane, come il solco caldo di un animale silenzioso nella terra invernale. E’ rimasto, di Jempi, quel Lombardia da novellino, quello scatto al Mondiale. E’ rimasta, cullata nel vento della primavera, quella sfida a Eddy, re che forse avrebbe spodestato dal trono. E’ rimasta anche quando il 17 marzo di quell’anno, sotto la pioggia, nel freddo che faceva sembrare Sanremo un paesino del Belgio, il Cannibale vinse ancora. Solo, in quel tempo da lupi, forse Eddy pensò al ragazzo del suo stesso Paese che aveva acclamato anche lui, che aveva applaudito, vedendolo in maglia iridata.
Eddy burbero e simpatico, campione odiato ed amato, senza vie di mezzo, dopo quella quarta Milano-Sanremo portò i fiori al sorriso senza tempo di Jempi. Lo sapeva, Eddy, che quel ragazzo era uno sfidante che poteva dargli filo da torcere e quei fiori, forse, significavano chapeau. Per l’orgoglio, la tenacia, il coraggio di voler spodestare un titano nella sua era.
Chapeau.
Per quella sfida che rimane incompiuta e forse un po’ dimenticata. Per quelle cose che nel ciclismo restano, nonostante tutto. Nonostante il vento che solleva le storie, le porta lontane e poi le restituisce, intatte o mangiucchiate dai ricordi. Ma sempre vivide nelle venature del tempo.