Ken Loach, un passo di danza e un centro sociale
L’Irlanda è nuovamente al centro del cinema di Loach. Un dramma storico e sociale, ispirato a una storia vera, che rimane perfettamente aderente all’intera filmografia del cineasta britannico.
Nel 1921 sull’orlo della guerra civile, in Irlanda Jimmy Gralton aveva costruito uno spazio nel quale si poteva danzare, partecipare a lezioni di pugilato, imparare a disegnare e prendere parte ad altre attività culturali. Accusato di comunismo, Jimmy era stato costretto a scappare negli Stati Uniti. Dopo dieci anni Jimmy torna a casa e i giovani del paese lo convincono a riaprire i battenti del centro ricreativo. Tuttavia la Chiesa comincia a intromettersi e a sconsigliare pubblicamente la frequentazione della sala di Jimmy.
Quello di Loach è un cinema schietto e semplice, rigoroso nella sua forma, mai sopra le righe e mai con un personaggio fuori luogo. Il cinema di Loach è sociale, è un intreccio di rapporti umani, laddove la comunità unita è sempre forte e in grado di fare qualsiasi cosa. Le pellicole di Loach appaiono belle perché in grado di parlare con genuinità a qualunque persona seduta in sala. E Jimmy’s Hall sotto tutti questi punti di vista non fa difetto. Una storia vera che fa ritornare il regista in Irlanda (come ne Il vento che accarezza l’erba) e che lo vede sposare nuovamente la causa irlandese.
Tuttavia dove pecca (lievemente) l’ultima pellicola di Loach? Sicuramente non nella delineazione dello scontro tra chiesa e comunismo (che assaporato in modo più complesso è la sfida tra autorità e libertà d’espressione) e nemmeno nel brillante mantenimento di quell’equilibrio sottile tra umorismo e dramma. Jimmy’s Hall pecca laddove esibisce sempre gli stessi temi, una linearità espressiva e stilistica, che probabilmente è fin troppo evidente in questa pellicola. Loach, soprattutto quando realizza un film storico, torna all’ovile e insiste sulle identiche tematiche, evitando di perdere la bussola, rimanendo in binari prestabiliti, conosciuti e riconoscibili. È questa l’unica critica che si può muovere al regista inglese che, a braccetto con l’onnipresente Laverty, costruisce un film pulito, senza fronzoli e senza figure stereotipate. Una pellicola dalle tinte jazz e dalla retorica ben definita, dal sentimento sociale condiviso e dalla sicura attrattiva. Dopotutto è sempre Ken Loach.
Voto: ***