Io la chiamo “Sindrome di Daniel Radcliffe”. È come la Sindrome di Zelig (quella del film di Woody Allen, se avete presente), solo che funziona esattamente all’opposto. La Zelig fa sì che l’individuo che ne soffre “assorba” l’identità della persona che ha di fronte: cuoco con i cuochi, buddhista con i buddhisti, endocrinologo tra gli endocrinologi. La Daniel Radcliffe, al contrario, trae il proprio nome dal proprio Paziente Zero, costretto a vivere nell’impossibilità di separarsi dall’identità che gli altri gli hanno appioppato: che si spogli sul palco di un teatro restando nudo insieme a un cavallo, o interpreti al cinema Allen Ginsberg o qualunque altro ruolo, per tutti rimarrà sempre il “maghetto con gli occhiali”. Oltre al suo eponimo portatore, la Sindrome registra un’incidenza estremamente elevata: colpisce numerosissimi soggetti, perlopiù appartenenti al mondo dello spettacolo, senza riguardi per età, genere o nazionalità. Tra gli altri Massimo Boldi (“Cipollino”), Leonard Nimoy (Spock), Martufello (Martufello). Non ne sono però immuni nemmeno gli scrittori: tra le vittime più illustri, J.K. Rowling, “la mamma del maghetto con gli occhiali”.
Ora: tutti quanti ci siamo appassionati (?) al fervido dibattito estivo che ha coinvolto la Rowling e la propria effettiva “autorialità”. Il boom di vendite registrato dal negletto The Cuckoo’s Calling appena si è scoperta la vera identità del sedicente Robert Galbraith non ha mancato di innescare la consueta miccia che sempre infiamma gli Scrittori Che Non Riescono A Pubblicare. Morte alla Rowling! Non la leggete perché è brava, ma solo perché si chiama Rowling! Posso dirlo? Che dibattito stucchevole. Sarà che io non sono uno scrittore, perciò mi interessano meno di nulla i meccanismi machiavellici e i complessi ingranaggi che depongono il manoscritto di un Big direttamente sulla scrivania dell’editor, precipitando al contempo quello di un esordiente nel tritarifiuti. Personalmente però, da lettore, trovo più interessante un’altra questione, e cioè: quando un autore, ormai pienamente identificato con un ben preciso universo narrativo, decide di scrivere una storia che con quell’universo non ha nulla da spartire, quanta sicurezza abbiamo, in quanto lettori, di riuscire a mantenere la mente abbastanza neutra per poterla giudicare esclusivamente per se stessa, per ciò che quella storia ci vuole raccontare, senza ricorrere continuamente al confronto con i suoi fratelli maggiori? In altre parole: mentre ci sdegniamo per l’ingiustizia che l’autore commette nei nostri confronti facendosi pubblicare forse solo grazie al suo Nome, siamo sicuri di non essere noi ben più ingiusti verso di lui annullandone l’identità e appiattendolo proprio su quel Nome che gli rimproveriamo?
All’uscita de Il Seggio Vacante, a dicembre dell’anno scorso, al romanzo è successo proprio questo: di essere annunciato ovunque come “il romanzo per adulti della creatrice di Harry Potter”. Niente di più deprimente può accadere a un libro. Non tanto per il fatto di venire sostanzialmente nullificato nella propria individualità sotto il peso del confronto pubblicitario con un altro libro che non c’entra nulla: un po’ come se, di due fratelli, uno venisse presentato non come Tizio, ma come “il figlio della madre di Caio”. Ma soprattutto per quella ridicola etichetta di “romanzo per adulti”. A parte che la definizione, per contrasto, sembrerebbe suggerire che quella di Harry Potter sia invece una saga per bambini; e su questo sorvolo. Ma poi cosa significa “romanzo per adulti”? Un romanzo con protagonisti individui prevalentemente adulti? Un romanzo che solo gli adulti possono comprendere o avvicinare? Un romanzo vietato ai minori? Un porno?
In realtà, Il Seggio Vacante non è un libro per adulti più di quanto non lo sia la maggior parte della narrativa mondiale; o meglio, lo è esattamente nella stessa misura. È una storia di conflitti e disagio – esistenziale e sociale – ambientata in una di quelle cittadine di provincia in cui non succede mai niente solo perché gli abitanti sono sufficientemente abili da farcelo credere: almeno finché non ci scappa il morto. Una sorta di mash-up tra Desperate Housewives e Gossip Girl, con lo zampino di Marx che se la ride delle catastrofi provocate dall’orgoglio di classe tanto caro alla medio-alta borghesia.
Pagford è un piccolo, ridente e inquietantemente buonista villaggio alla periferia della più estesa Yarvil, alla quale è legata a filo doppio dalla giurisdizione comune su una zona popolare – i Fields – dove droga, criminalità e problematiche borderline sono all’ordine del giorno, e la cui responsabilità Pagford non vede l’ora di scrollarsi di dosso. La morte del consigliere locale Barry Fairbrother, principale baluardo nella difesa dei Fields e dell’annesso centro per la tossicodipendenza Bellchapel, dà la stura a un vaso di Pandora di odi, rancori, rivalse e meschinità violentissime (ma fino allora sopite), che frantumano la cittadina in una serie di lotte a più livelli (generazionali, sociali e politiche), innalzando il livello di tensione fino al punto di rottura, e spingendosi forse ancora un po’ più in là. Nessun finale rassicurante, o anche solo catartico. Non sempre se ne può avere uno, e gli scrittori (quelli veri, non quelli ruffiani) lo sanno bene.
Tutto qui? Tutto qui. Piccola provincia che nasconde il marcio, ricchi contro poveri. Se Il Seggio Vacante non fosse stato scritto da qualcuno di nome J.K. Rowling, ma da un qualunque ambizioso esordiente, saremmo qui a parlarne? Probabilmente no; e faremmo male. Ma ancor peggio faremmo a leggerlo attraverso il filtro pregiudiziale di universi narrativi del tutto alieni, liquidandolo come il capriccio letterario della “mamma del maghetto con gli occhiali”. D’accordo, non è certo originalissimo il tema del conflitto tra borghesi benpensanti e ipocriti che nascondono la cenere sotto il tappeto finché non prende fuoco e outsider disgraziati ma puri che naufragano nel tentativo di riscattarsi (non so se avete letto Resurrezione di Tolstoj, comunque siamo da quelle parti). Ma il punto è proprio qui: perché quanto più trito è il tema, tanto più alto il rischio di svilirlo. Il Seggio Vacante è un romanzo di elevata coralità in cui ogni corda deve far vibrare le altre in un preciso momento e secondo una precisa tonalità, o l’intera struttura stonerà. Non è un romanzo che si può scrivere come opera prima: la gestione della materia richiede (e rivela) un autore di razza che non perde mai il controllo del soggetto, calibra con maestria toni narrativi e registri stilistici, padroneggia il gioco dei continui cambi di prospettiva, opinione, sentimento (talvolta nello stesso paragrafo) senza scadere nel virtuosismo, sa quando rilassare il lettore e quando invece fargli stringere i pugni. In questo soprattutto la Rowling si dimostra maestra rodata: nel far convergere ogni singolo elemento narrativo verso il punto critico, allungando la corda ai personaggi finché si impicchino da soli, portando il crescendo della tensione sempre più in alto, al limite del sopportabile, e poi facendo esplodere tutto in una deflagrazione che (qui sta il bello) non ha nulla di positivo, nulla di purificatore. Non vincono i buoni, a Pagford: viene persino il dubbio che i buoni nemmeno ci siano. L’unica vittoria è dalla parte del mantenimento dello status quo, e per l’uomo, si sa, non c’è niente di peggio che restare prigioniero della propria esistenza.
Datemi retta, non cercate Harry Potter ne Il Seggio Vacante; non ce lo troverete, e finirete per non capire la storia che state leggendo. Non chiedete alla storia quello che la storia non vi vuole dare. Quando lo avrete spogliato di tutto ciò che non gli appartiene (etichette banalizzanti, sovrastrutture ideologiche, false attese; persino il nome dell’autore non c’entra nulla con un libro), potrete godervelo per quello che è: un ottimo romanzo, onesto con se stesso e con il lettore, che vi farà ridere finché lo riterrà opportuno, e poi vi distruggerà. A uno scrittore non si può chiedere di meglio.
J.K. RowlingIl Seggio Vacante
Traduzione Silvia Piraccini
Salani
2012, pp. 560, € 22,00