
Qualche anno fa la Rete ha vomitato in silenzio una serie di schizzi e di idee per un progetto degli anni Settanta che poteva essere di grande interesse ma che, a conti fatti, nel post 2000 non avrebbe cambiato la vita di nessuno. O almeno questa è la sbrigativa sensazione che ho avuto.
Non so se sia stata mancanza mia (probabilmente sì), o se davvero un certo fandom abbia accolto questa notizia con relativo menefreghismo, a suo tempo è sembrato semplicemente uno di quei grossi e malinconici vorrei-mai-non-posso che da tanto tempo torturano autori e pubblico che mirano a sogni ahimè irrealizzabili: tra l’Hyperion di Scorsese, lo Spidermandi Cameron, e Le montagne della folliadi Del Toro, la lista è lunga e destinata a non estinguersi mai, ma se di solito non ci si allontana troppo da timidi tentativi e idee appena approcciate, e solo in qualche caso è la fottuta sfiga a bloccare le ambizioni (il Don Chisciotte di Terry Gilliam, funestato da meteo e sfortune varie), vedere Jodorowsky’s Dune fa luce su una serie di spunti, invenzioni e aspirazioni che avrebbero realmente potuto cambiare l’attuale fantascienza e, forse, anche un certo modo di intendere il cinema di genere nei suoi aspetti più mainstream.
Anche senza farsi troppo incantare dalle parole di Jodorowsky, che adesso come allora racconta con un’enfasi e una sicurezza che aveva anche tutti i meriti di possedere e sfoggiare, è chiaro come tanti aspetti partoriti dalla sua mente e dalla sterminata schiera di nomi autorevoli coinvolti, siano stati un gigantesco, colossale bacino di idee dove attingere senza tanti complimenti, e se la rivoluzione non ha corrisposto alle sue visioni ciò non toglie che molti, molti pilastri (da I predatori dell’arca perduta a Contact) siano stati edificati su quei primi mattoni che lui stesso ha posato ormai quarant’anni fa.
Nel 1974, Jodorowsky racconta, il pazzo regista cileno era molto apprezzato: pur con due film folli e surreali come El Topo e La montagna sacra, il successo di pubblico e critica l’aveva spinto verso un’ambizione che, in certi ambiti e in certi tempi, era legittimo professare. La possibilità che il suo Dune, progettato per l’anno successivo, e quindi ben due anni prima di Star Wars, potesse scardinare tutto quanto era realmente concreta, perché l’immaginario di Jodorowsky era senza limiti, era pura meraviglia artistica priva di concessioni e soprattutto scevra e ancora vergine di fantasie altrui. Il solo desiderio di realizzare un film che avesse una durata fiume priva di alcuna considerazione per alcun tipo di pubblico (Jodorowsky parlava di dodici ore) è qualcosa di allucinante oggigiorno ma già allora fuori da qualsiasi schema, è un desiderio talmente anarchico per il quale il cinema non era e non sarà mai pronto.
In poco tempo Jodorowsky forma un dream team che probabilmente mai nessuno, nel cinema, ha avuto modo di poter assemblare: con Moebius scrive e disegna l’intero storyboard, con il grande copertinista inglese Chris Foss dà forma ad astronavi ed edilizia aliena dalle particolari forme squadrate, con Giger prepara il terreno alle deformità meccaniche degli Harkonnen (che torneranno ovviamente nel Dunedi Lynch), si assicura i Pink Floyd, i Magma e Mick Jagger a suon di paroloni su un progetto che cambierà il cinema, e assolda addirittura Salvador Dalì e la sua magnificenza folle per farlo recitare nella brevissima parte dell’imperatore. È abbastanza limpido quindi come Jodorowsky avesse piani precisi, d’acciaio, non erano solo sogni campati per aria o aspirazioni da raggiungere a leccate nel culo, aveva una meta lontana e l’autostrada che stava costruendo era sempre più vicina.