Leggendo The Heroes mi sono venuti in mente alcuni spunti per un approfondimento, vedremo se e quando troverò il tempo per scriverlo.
Al suo interno la magia è praticamente assente ma, come provano le opere di Kay, questo non è un problema. C’è una notevole crudezza nel descrivere la guerra, come c’è nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin. I personaggi subiscono ferite che li sfigurano o li storpiano per sempre, molti di loro muoiono, e a volte la morte viene anche vissuta “in presa diretta”, con gli occhi del moribondo. E anche Martin a volte si dà da fare con le descrizioni e i dettagli, e sempre si premura di ricordarci che la realtà è ben diversa dalle canzoni. La maggior parte di The Heroes è dedicata a tre giorni di una battaglia che sembra non finire mai nei pressi di un monumento megalitico chiamato Gli Eroi e nel piccolo territorio circostante della vallata di Osrung. Perciò nemmeno il togliere l’aura di eroicità alla guerra per farla vedere negli aspetti più crudi, di per sé è un problema.
Guerra, guerra e ancora guerra. In A Memory of Light, firmato da Robert Jordan e Brandon Sanderson (e ricordo che la sua traduzione con il titolo Memoria di luce è prevista per il prossimo mese di luglio) il 37° capitolo, da pagina 617 a pagina 806, si intitola The Last Battle ed è dedicato all’Ultima Battaglia, ma non è che prima e dopo non siano descritte scene di guerra. In quel caso non mi ero annoiata né avevo trovato pesanti o lunghe le descrizioni. Muoiono molti personaggi, alcuni minori ma anche altri che sono stati punti di vista in non so quanti libri, e per me la loro morte è stata estremamente dolorosa.
Qui no. Secondo me il focus è troppo ristretto. Curden lo Strozzato, Bremer dan Gorst, Calder e gli altri personaggi dopo un po’ prendono vita, anche se Abercrombie fornisce le informazioni con il contagocce e a volte lascia molto all’immaginazione. Anche Steven Erikson tende a svelare poco dei retroscena, e forse la difficoltà a capire i suoi personaggi e le loro motivazioni è una delle cose che mi ha bloccata nella lettura della Caduta di Malazan. Ma anche con Martin non tutto è evidente a prima vista, anzi, tutt’altro, e non ho mai avuto problemi. Il problema, forse, è che qui era tutto terra terra. La crudezza di Martin, anzi, una crudezza ancora maggiore. Scene di battaglia più lunghe di quelle di Jordan e Sanderson, con però personaggi con i quali non ho convissuto per anni, e i cui destini m’interessavano molto meno. La scarsità di spiegazioni. La mancanza di uno sguardo più ampio, con un’eccessiva focalizzazione sul qui e ora. I continui, troppo insistiti, dettagli truculenti. Va bene mostrare la realtà, ma sono capace di afferrare il concetto con molto meno. Oltre vent’anni fa ho letto Il talismano di Stephen King e Peter Straub. Non ricordo nulla della trama, solo che all’epoca mi era piaciuto ma che avevo trovato troppo lunghe le parti di horror. Quando i due autori attaccavano con una descrizione io pensavo “sì, va bene, qui dovrei aver paura. Ora, per piacere, potreste finirla e andare avanti con la storia?”. Anche con Abercrmbie avevo questo desiderio, la voglia che certe descrizioni fossero abbreviate per poter andare avanti con la storia, e sì che da fan di Jordan dovrei essere allenata alle descrizioni lunghe. E il banchetto dalle 77 portate di Martin dove lo mettiamo? Eppure è uno dei momenti più esaltanti della saga.
Calder e Curden ripensano a Bethod, ma a me di lui non importa proprio nulla. Analogamente a Bethod non ho mai visto né Rhaegar né Lyanna, sono tutti morti e sepolti ben prima dell’inizio della storia, ma sono avida di informazioni su di loro. I personaggi di Abercrombie soffrono, a volte perdono pezzi e a volte muoiono? Alla fine, anche se sono descritti solo in rapporto alla guerra, qualcosa (non tutto) del loro passato emerge e le loro motivazioni diventano comprensibili. Più comprensibili, per me, rispetto a quelli di Erikson. Sono personaggi vivi, a tutto tondo, ma sono vivi solo nell’istante. Non c’è nessuna prospettiva per loro anche se fanno piani per il futuro, perché non c’è nessun mondo al di fuori del campo di battaglia. Il fatto che Gorst pensi a Sipani non rende il luogo reale. E nonostante tutto il suo pianificare non riesco a immaginare Finree al di fuori del contesto in cui ho letto di lei. Cos’è l’Alleanza? Quali territori comprende il Nord? Tutto è sfumato, indistinto, e quindi per me poco reale. Onestamente, ma chi se ne frega di chi dominerà quali territori!
Non c’è magia perché anche se i personaggi di Abercrombie sono vivi, segno di un’indubbia capacità di scrittura, rimangono delle figure legate a un piccolissimo ambito. Il mondo non esiste e il mondo, per me, è una parte fondamentale del fantasy. Ne abbiamo parlato in un numero di Effemme, il quinto, dedicato ai mondi fantastici, ma anche nel sesto è confluito un mio articolo, Un solo mondo, mondi diversi per Robert Jordan che avevo preparato per il numero precedente e che non avevamo pubblicato lì per problemi di spazio. Westeros è vivo. Randland è vivo. Il Kitai è vivo. Darkover è vivo. La Terra di Mezzo è viva. Potrei andare avanti così per un bel pezzo, e mi sa che finirò per scriverne ancora. La valle di Osrung? Un ammasso di terra e rocce per cui non vale la pena combattere e morire.
Chi l’ha detto che un morto è una tragedia, sei milioni di morti una statistica? The Heroes è una statistica. Scritta bene, magari anche coinvolgente mentre la si legge, ma che per me smette di essere interessante una volta chiuso il libro. Recentemente Gargoyle ha pubblicato anche Il richiamo delle spade. Dubito che lo leggerò mai.