La storia del jazz si può riassumere in un full di nomi: Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker, Charles Mingus e Miles Davis. "The Duke" non fu solo l'eroe dell'era delle big band, dello Swing e del Cotton Club, ma dopo il leggendario show al festival di Newport del 1956 si laureò uno dei musicisti più importanti del XX secolo con le sue numerose suite come And His Mother Called Him Bill, New Orleans Suite e Far East Suite, che lo portano dalle parti di Gerswin.
The Duke di Joe Jackson sta a Duke Ellington quanto Roll Over Beethoven di Chuck Berry sta a Ludwig Van Beethoven, con la differenza che Joe Jackson non è Chuck Berry.
Joe Jackson è un musicista britannico di successo degli anni ottanta che, esordito in piena energia punk con la JJ Band, con il jazz ha più di un debito in virtù del successo del suo masterpiece Night and Day (il cui titolo è uno standard di Cole Porter) oltre che dell'hot jazz di Jumpin' Jive e del jazzy di Night and Day. Dopo inutili inseguimenti con remake e reunion di scarso successo, JJ ci riprova oggi con un omaggio al Duke, con molto amore (basti leggere il suo articolo sul libretto) ma anche con molta personalità. Nelle interpretazioni di JJ non c'è jazz, né swing né big band né jungle. Ci sono invece quindici canzoni compresse in dieci tracce eseguite con arrangiamenti tanto sofisticati quanto ristretti (per numero di musicisti e strumenti), declinati in altrettanti stili, tutti diversi da quelli di Ellington, dal lounge al beat, dal latino alla salsa, dal blues a Zappa.
Ciò che caratterizza questa calendoscopico varietà è l'omogeneità del risultato e soprattutto la bellezza di ogni traccia e del disco nel suo intero. Si può ben affermare che se Joe ha messo il cuore per realizzare un lavoro della perfezione di Night and Day, beh, forse c'è riuscito. Il disco si apre con Ishafan, suggestivo strumentale notturno basato sulla chitarra elettrica vagamente santaneggiante di Steve Vai e su un suono di tastiere quasi di xilofono di JJ, che si scioglie in una strepitosa Caravan medio-orientale sostenuta dalla magica voce femminile di Sussan Deyhim. Pop frizzante è I'm Beginning To See The Light; evocative di sensazioni beatlesiane (alla Macca) sono Mood Indigo e I Got It Bad (And It Ain't Good). Rockin' in Rhythm con Tony Aiello e Tuba Goodin Bryson è uno strumentale pregnante di New Orleans. I Ain't Got Nothing But The Blues è virata in soul dalla voce nera di Sharon Jones. Perdido / Satin Doll è una salsa brasiliana cantata da Lilian Vieira.
Invece di mettere il meglio all'inizio e finire in dissolvenza, The Duke si conclude con il botto. Prima con una The Mooche in versione reggae che si sviluppa quasi zappiana come uno strumentale sostenuto dalla fantasiosa chitarra di Steve Vai che scivola nella Black & Tan Fantasy per organo e fisarmonica, poi con il pezzo più orecchiabile e godibile, l'hit di Duke Ellington It Don't Mean A Thing (If It Ain't Got That Swing) su una elegante base elettronica lounge su cui si rincorrono le voci di Jackson e dello stooge Iggy Pop.
Un disco che coniuga il miglior pop con la musica più sofisticata, come faceva una volta appunto il Jazz.