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Joey DeMaio a cena con Scribacchina

Creato il 05 settembre 2012 da Scribacchina

Beh, proprio a cena no, soliti lettori (magari…).
Diciamo che il tutto si svolse in orario di cena e che non v’eran né aragoste né champagne: si trattò d’un semplice buffet in piedi. Nulla di che.

Ma andiam con ordine, altrimenti non ci capiamo.

Dopo avervi propinato l’intervista alle sconosciutissime Pink!, mi resi conto che forse era il caso di proseguire con una chiacchierata un poco più pregnante. Magari con un personaggio universalmente noto, magari proprio con un bassista.
Ebbene, mi ricordai improvvisamente un nome e una data: Joey DeMaio, 24 marzo 1999.

L’incontro col Joey (un bassista «di quelli che te li raccomando») avvenne, tanto per cambiare, a Milano, in uno dei soliti hotel extralusso presi a nolo per l’occasione; diversamente dal consueto, l’intervista non si sarebbe tenuta di pomeriggio, ma in orario di cena. Subito dopo ci si sarebbe trasferiti tutt’insieme – scribacchini e Joey - al Crossroads di Bresso, dov’era previsto il buffet cui accennavo più sopra e l’incontro della star coi fan.

Essendo le amiche di Scribacchina tutto fuorché appassionate di musica (figuriamoci portarle a un evento heavy metal…), essendo Sorella in altre faccende affaccendata, la sottoscritta pregò d’accompagnarla in Milano un occhialuto Collega, personaggio nato e cresciuto con un certo aplomb: in una parola, imperturbabile. Potreste metterlo nel mezzo d’una rapina, o farlo assistere alla scena più esilarante: egli resterà tranquillo sulle due gambe, sguardo indagatore e l’unico obiettivo di trovar pane pei suoi articoli.
Costui si sottopose di buon grado alla bisogna (se debbo dirla tutta, riuscii pure a farlo ridere, e non poco, in quella serata alternativa – impresa forse più difficile che non intervistare Joey DeMaio).

Dicevo dell’aplomb di Collega: come facilmente intuibile, quella sera egli non mostrò alcun segno d’emozione all’idea d’incontrare uno tra i Mostri Sacri del basso heavy metal; la sua pacatezza fu perfettamente compensata dalla mia personale, comprensibilissima agitazione. Inutile, peraltro: come quasi tutti i metalmen che incontrai, pure Joey si rivelò giovinotto estremamente alla mano, disponibile e pure simpatico (il che non guasta).

Credo che Joey DeMaio sia stato il primo grande musicista che ebbi la ventura d’intervistare. E… sì, temo che lo stupore e l’ammirazione che da subito nutrii per il bassista americano si siano riflesse (insieme a una certa ingenuità) nel pezzo che scrissi e che vi ripropongo qui sotto.

Quest’oggi, con ogni probabilità, l’avrei scritto diversamente.

***

Joey DeMaio - Manowar, intervista

Aprile 1999

Heavy metal. In italiano, «metallo pesante»: una musica che è una fede per chi la apprezza, che può diventare una ragione di vita per chi decide di farne una professione. E’ il caso di Joey DeMaio, lo storico bassista dei Manowar che ha tenuto una conferenza stampa martedì l’altro 24 marzo al Palace Sheraton Hotel di Milano in occasione della presentazione del doppio cd live del gruppo di New York, titolato Hell On Stage.
Al termine della conferenza, ho approfittato della disponibilità di Joey per scambiare quattro chiacchiere.

- Joey, è uscito da quasi un mese il doppio cd live dei Manowar, Hell On Stage. Perché pubblicarlo subito dopo Hell On Wheels del ‘98, il primo live della vostra carriera?
«Hell On Wheels è stato una specie di prova generale per lo show vero e proprio, il doppio Hell On Stage. E’ interessante notare come abbiamo unito nella stessa opera registrazioni prese da concerti diversi; una scelta che ci ha permesso di mostrarci a tutto tondo, facendo respirare agli ascoltatori l’atmosfera unica che sappiamo infondere ad ogni singolo live».

- Visto che siamo in argomento ‘registrazioni dal vivo’, cosa ne pensi dei bootleg?
«Oh, odio profondamente i bootleg, e per un buon motivo: è impossibile che un bootleg rappresenti fino in fondo il gruppo, la sua musica e il suo modo di proporsi. Chiaro, per un fan che conosce già vita morte e miracoli del gruppo, non ci sono problemi: i brani sono familiari, quindi considera il bootleg come un diversivo all’album di studio; ma per chi non conosce l’artista, ascoltare una registrazione dal vivo poco curata è rischioso, oltre che poco piacevole».

- So che i Manowar quest’anno parteciperanno ai Gods Of Metal (5-6 giugno, Filaforum di Assago, ndr): puoi dirmi qualcosa in merito?
«Sì, stiamo preparando uno spettacolo indimenticabile, qualcosa di veramente fantastico. Scommetto che tutti i nostri fan saranno più che soddisfatti di quello che abbiamo in mente di fare. Ovviamente non posso dire di cosa si tratta perché non sarebbe più una sorpresa…».

- Di tutti i brani che hai scritto con i Manowar, qual è a tuo parere quello meglio riuscito?
«No, per piacere, non posso rispondere a questa domanda! E’ come chiedere a un padre quale dei figli preferisce, o dover scegliere tra un gruppo di ragazze quella più bella… è impossibile. Non ho né un brano né un album preferito perché credo che in ogni momento della nostra vita come Manowar abbiamo sempre dato il meglio di noi stessi. E se in quel momento era il meglio che potevamo dare, non è possibile fare una graduatoria tra cose che prese singolarmente rappresentano il meglio».

- Cosa ti spinge a continuare a fare musica dopo quasi due decenni di attività come bassista?
«Quello che mi spinge è l’amore che ho per la musica e per i fan; sono soddisfatto della risposta dei fan, un po’ meno di quella delle case discografiche. Fortunatamente, adesso siamo sotto contratto con l’etichetta Nuclear Blast: gente che produce musica perché ama farlo, proprio come noi. Sono persone piene di passione per l’heavy metal, che si interessano seriamente al nostro mondo. E’ bello lavorare con loro, dà soddisfazione».

- Quali sono state le tue fonti ispiratrici, i tuoi modelli artistici?
«Senza dubbio i grandi dell’heavy del passato: Led Zeppelin, Black Sabbath, ma anche Jaco Pastorius… e poi il grande Frank…».

- …?…
«Sì, Frank Sinatra: ah, lo adoro, sul serio, non sto scherzando! E’ un grandissimo artista… cioè, era, pace all’anima sua…».

- Un parere sul collega Bon Jovi, che ha pubblicato in questi giorni il singolo Real Life.
«Beh, Bon Jovi non fa heavy metal… tanta gente confonde l’heavy metal con l’hard rock, ma in sostanza sono due generi diversi. Lo stesso discorso si può fare per molti altri gruppi che seguono la scia dei Bon Jovi e che con l’heavy metal non hanno niente a che spartire».

- Hai mai pensato di darti al canto come solista?
«Diciamo che mi limito a fare il cantante ‘in seconda’: se ascolti bene il brano Carry On, nel coro si sente la mia voce».

- E per la pubblicità agli album, la promozione, come la mettiamo?
«Parliamoci chiaro: l’unica pubblicità che funziona davvero è il passaparola. Una persona ascolta un cd, dice a un amico: “Senti, questo è grande” oppure: “Non ascoltare questa roba perché proprio non va”, ed è questo che in fin dei conti decide se un album sarà venduto o meno. Ripeto: la nostra forza sono i fan».

- In una parola, come definiresti il tuo modo di suonare?
«Folle. No, forse è meglio dire ‘ubriaco’. Figurati, mi ricordo che qualche tempo fa c’era un giornalista che mi stava intervistando; un tipo molto perbene, composto, che faceva domande estremamente tecniche e approfondite. Insomma, questo tizio mi chiede se uso degli effetti speciali per riuscire a conferire al mio tocco bassistico quella particolare impronta. Io ci penso, prendo un atteggiamento molto serio e rispondo: “Sì, ho tre effetti speciali”. Il tipo, interessato, chiede quali siano questi tre effetti. Immagina la faccia che ha fatto quando gli ho risposto: “Vodka, Gin e Whisky”!».

- Il vostro nome, Manowar, significa ‘uomini della guerra’, guerrieri; credi ci sia ancora qualcosa per cui battersi, oggi?
«Certo: la vera battaglia è mostrare se stessi, quello che si ha nel cuore. E’ credere in quello che si fa, ma crederci profondamente, e battersi per le proprie convinzioni. E’ una battaglia che non può avere una fine, perché finché si è vivi si continua a lottare per questo. La nostra fede, come Manowar, è la fratellanza, l’unione del gruppo; la stessa fede che trasmettiamo ai nostri fan, che sono un vero e proprio gruppo compatto di persone unite dalla nostra musica e dalla fede nell’heavy metal».

- Se qualcuno ti dicesse che sei lo stereotipo dell’appassionato di heavy metal (borchie, tatuaggi, capelli lunghi e muscoli), tu cosa risponderesti?
«Lo prenderei come un complimento: vorrebbe dire che ho imparato anch’io da qualcuno, che ho avuto i miei modelli, e che ora propongo tutto quello che ho imparato alla mia maniera. Sì, è un complimento; è come dire ad un barista che è lo stereotipo del barista, o ad una casalinga che è lo stereotipo della casalinga. Vuol dire che sono riuscito nel mio intento: quello di essere un musicista heavy metal il più credibile possibile».

La serata si conclude al Crossroads Club, dove ad attendere il musicista c’è una massa compatta di persone. Aveva ragione, Joey, quando diceva che i fan dei Manowar sono come una famiglia: stessi giubbotti di pelle borchiati, stesse magliette nere targate Manowar, stessi capelli lunghi, stessa voglia di vedere dal vivo il loro idolo. E alla fine ce la faranno ad incontrare il ‘loro’ Joey, che – dopo un rapido saluto dal palco del locale – si ritirerà, lasciando i fan in adorazione di fronte al maxischermo sul quale appaiono le immagini di una delle loro ultime esibizioni, quella dello scorso settembre a San Paolo, Brasile.
Giusto il tempo di distrarsi cinque minuti e le orecchie sono colpite da un suono incalzante: è quello del basso di Joey, che riproduce perfettamente Il Volo Del Calabrone.
La prossima volta che sentirete qualcuno definire l’heavy metal dei Manowar «sporco rumore», ditegli di provare anche soltanto a fischiettare Il Volo Del Calabrone: ci sono 99,9 possibilità su 100 di fargli cambiare idea.


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