La fine della strada (1958), piccolo capolavoro barthiano a base di (apparente) semplicità, nichilismo, satira sociale, potente allegoresi ed estrema sintesi del modus operandi letterario post-moderno. Al pari, anzi, specularmente, all’Opera galleggiante, in questo agile romanzo i più tipici luoghi comuni della letteratura americana del secondo dopoguerra vengono mescolati, rimaneggiati e filtrati dal personalissimo humour dolcemente disperato e tragicamente comico tipico dell’autore.
Al centro degli eventi, l’improbabile protagonista Jacob Horner, uomo che ha fatto dell’inanità e della paralisi esistenziale il nucleo immobile della sua vita paradossale. Pare a tratti di leggere il resoconto di un caso clinico alla Oliver Sacks, ampliato in una trama dai risvolti grotteschi, nella quale emergono tutte le idiosincrasie e le contraddizioni di una società in apparenza opulenta e libera, ma in realtà povera e impietrita da convenzioni e norme ispirate al quieto vivere, che producono però l’effetto contrario.
Trentenne dalla vita quanto mai senile, Horner è il simbolo della difficoltà/impossibilità di decidere, di prendere una posizione, una direzione. Il mestiere di vivere e le sue possibili soluzioni, questo il tema centrale che scorre sotto gli avvenimenti descritti da Barth con la sua solita leggera solarità, necessaria e sufficiente a gettare uno sguardo trasversale e illuminante sull’interiorità (psiche/sentimenti) dei suoi personaggi.
Lettura scorrevole, piacevole, ma che riserva risvolti e profondità inaspettate, La fine della strada rende davvero palese il fil rouge stilistico che lega un autore come John Barth (classe 1930) a David Foster Wallace (1962) o Dave Eggers (1970), in un processo di filiazione tematica, semantica, ma soprattutto culturale che è una interessate cartina al tornasole dell’America contemporanea.
“Il mondo è fatto di ciò che vuole il caso, e ciò che vuole il caso non è una questione di logica”.