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John Cheever – Tredici racconti

Creato il 16 gennaio 2012 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

John Cheever – Tredici raccontiRecensione di Chiara Macchiarulo

Uno degli innumerevoli modi possibili per leggere i Tredici racconti di Cheever (Fandango – euro 16,50) è leggerli tutti d’un fiato come un romanzo in cui la casualità con la quale avvengono i fatti della vita è semplicemente resa per quello che è, ovvero una catena apparentemente sconnessa di episodi uniti tra loro dal solo fatto di avere un osservatore comune.
Così i Tredici racconti sembrano scivolare l’uno nell’altro grazie a elementi secondari e quasi di circostanza: notazioni atmosferiche e ambientali, nomi di luoghi e città, come in un gigantesco piano sequenza à la Orson Welles. Il risultato è un insieme omogeneo ma non omogeneizzato di inquadrature e zoomate che dal primo racconto arriva all’ultimo con grande naturalezza.
Forse una simile lettura apparirà azzardata, soprattutto qualora si considerino le date di stesura dei racconti, le disparate pagine letterarie sulle quali sono apparsi e soprattutto la maggiore fama del Cheever novelliere piuttosto che romanziere. Ma se è vero quanto afferma George W. Hunt nella Postfazione che chiude la raccolta, possiamo immaginare questi frammenti come l’unico possibile puzzle di un insieme continuamente sfuggente. In questo senso vanno lette le parole dello stesso Cheever: «Beh, mi sembra che per un narratore un orecchio virtualmente perfetto sia basilare quanto i suoi reni. Bisogna essere abili a cogliere le voci dei personaggi, a orecchiare cosa viene detto quattro tavoli più in là. Questo è il solo kindergarten dell’aspirante scrittore, per quello che mi riguarda».
Apre la raccolta l’inverno secco di Fall River con l’altrettanto secca descrizione del peso della Grande Depressione, tema quanto mai attuale anche se tratteggiato con tocco ancora acerbo.
Si passa per l’estate piovosa di Riunione tardiva e si arriva alla primavera di Birra scura e cipolle dolci, entrambi ambientati tra le mura della fattoria-pensione dell’inquieta Amy.
Nell’Autobiografia di un commesso viaggiatore l’ascesa e la caduta del protagonista in un mondo in trasformazione è narrata in prima persona con una successione di frasi che precipitano verso una conclusione amara e stordente, le cui rapidità e apparente inspiegabilità rendono queste poche pagine un autentico piccolo gioiello.
Il più lungo e forse più ambizioso episodio della raccolta è Di passaggio. Sostanzialmente diviso in due parti identificabili con le due ambientazioni, è il primo del volume in cui si affaccia il tema delle corse di cavalli, che sarà al centro di ben tre racconti successivi; in esso, inoltre, viene esplicitato un motivo politico-rivoluzionario con il quale Cheever non fu mai particolarmente generoso. Probabilmente è per questo che, anche quando raggiunge il suo picco, l’estasi oratoria di Girsdansky risulta sempre poco credibile, riscaldata e rimasticata: «[…] È semplice, semplice, semplice, e ognuno di noi, dopo tutti questi anni, deve tornare alla giustizia e alla ragione. È un mondo marcio e ce ne siamo resi conto tutti. Il marciume pervade ogni cosa. Non ci resta che cambiarlo. È semplice come il desiderio di mangiare, bere e vivere. Se un uomo, qualsiasi sia il suo coraggio o la forza, si ritrova con mani e piedi legati è naturale che provi a liberarsi. Il mondo è lento a imparare, ma la gente prima o poi impara. Come possono esimersi dall’imparare? Stanno già imparando! L’ho visto con i miei occhi durante questi anni in cui ho fato su e giù per il paese».
A dir poco perfetta, invece, la caratterizzazione di Bayonne, la cameriera che dà il titolo al racconto seguente. Bayonne è un personaggio affascinante, ambiguo, del quale possiamo elogiare la bontà ed esecrare la durezza quasi allo stesso tempo. Indimenticabile. Quando offre dei soldi alla nuova arrivata perché si iscriva «in un’agenzia come si deve» non riusciamo davvero a capire se lo faccia per filantropia, per non farle «buttare la vita in questo posto» o perché la presenza della ragazza ne mini la supremazia nel locale.
La principessa protagonista del racconto successivo, invece, non ha la stessa potenza di quella cinica cameriera, ma rende evidente l’attenzione e la cura prestate da Cheever per disegnare personaggi femminili in quel suo primo laboratorio narrativo. Quasi tutte le figure femminili sono molto ben caratterizzate e hanno l’aspetto e il fondo scuro, forte, amaro di un vecchio liquore fatto in casa: di quelli che non si trovano al supermercato, tanto buoni quanto letali.
Su tutte svetta La spogliarellista, forse insieme a Bayonne il ritratto meglio riuscito e credibile dell’intera raccolta.
È ancora una donna, La moglie giovane, a inaugurare quella che potremmo definire la trilogia ippica: tre racconti a vario modo riguardanti il mondo delle corse di cavalli con i suoi contorni patinati e i suoi interni notturni di solitudini. Il sottofondo di questo racconto, ma forse in senso lato dell’intera raccolta, è la perdita. Di denaro, di amore, di vita. E quanto la perdita del prosaico e vile «sterco del diavolo» condizioni intimamente l’evoluzione di quella vita, che non vuol altro che essere banale e ordinaria. Come se la miseria materiale e quella morale fossero le due metà di uno.
Una piccola luce sembra accendersi a Saratoga, tra le cui pagine si racconta uno strano incontro amoroso: quello tra Judith e Roger, cresciuti tra ippodromi e scommesse; entrambi sognano un futuro diverso, ma le persone non cambiano, possono solo decidere di stare da sole insieme per stare meglio. Cos’è l’amore se non un tollerante incrocio di mancanze e perdoni?
L’uomo che lei amava mostra il lato più frivolo e di intrattenimento del mondo dei cavalli, ed è una sorta di gustosa commedia semiseria.
Finite le corse si torna a casa. In Pranzo di famiglia troviamo un delicato ritratto di madre: «Era una donna molto ospitale e di buon cuore, che cercava di contenere il suo smodato affetto, ma quando strinse Frances tra le braccia non riuscì a trattenere le lacrime. Si sforzò di mutare il suo volto bagnato in un volto sorridente e indietreggiò per ammirare il vestito della figlia, e sebbene fosse in perfetto ordine le sistemò più e più volte la scollatura, come se Frances fosse ancora una bambina».
Chiude la raccolta L’opportunità, un altro racconto con una forte protagonista femminile.
Last but not least, condisce e amalgama il tutto l’ottima traduzione di Leonardo Giovanni Luccone, voce italiana dello scrittore statunitense.

Nota sull’autore
John Cheever (Quincy 1912-New York 1982) è stato uno dei maggiori narratori americani del Novecento. Eccellente come autore di racconti, si dedicò anche al romanzo, a detta di molti con minori fortune. Ciononostante nel 1958 il suo primo romanzo Gli Wapshot vinse il National Book Award. Molti dei suoi racconti, tra cui quelli presentati in questa raccolta, sono comparsi sulle più diverse pagine letterarie: “Left”, “Collier’s”, “Cosmopolitan”.
Nel 1978 vinse il National Book Critics Circle Award e il Pulitzer.

Per approfondire:
leggi la recensione di Matteo Nucci sul venerdì
leggi la recensione di Roberto Bertinetti sul Sole 24 Ore

John Cheever Tredici racconti
traduzione di Leonardo Giovanni Luccone
Fandango, 2011
pp. 192, euro 16,50


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