John Dewey fra natura e cultura

Creato il 22 febbraio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
di Michele Marsonet. La rivalutazione in atto del pragmatismo americano non può prescindere dalla figura di John Dewey, un grande rappresentante della filosofia del ’900. Nel suo pensiero il continuo sviluppo della scienza sperimentale costituisce una condizione necessaria per conseguire il miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Tuttavia, in sintonia con l’intera tradizione pragmatista, Dewey non è scientista come i positivisti; a suo avviso il ruolo della scienza nell’esperienza non è un assoluto, ma uno dei tanti fattori che concorrono alla formazione della nostra visione globale del mondo, alla pari con l’arte, l’etica e la politica. Né alla scienza va attribuita una funzione di coordinamento generale.

Il filosofo statunitense ritiene, infatti, che sia errato e controproducente considerare la ricerca scientifica unicamente quale mezzo per dominare la natura: egli afferma che una simile concezione rappresenta la conseguenza di una visione della natura e della scienza storicamente datate. Il naturalismo evoluzionistico deweyano porta invece a concludere che l’uomo è “parte” della realtà naturale, e non un ente che per ragioni misteriose si contrappone a essa proponendosi di piegarla interamente ai suoi fini. D’altro canto, gli esseri umani acquistano coscienza di se stessi solo con la pratica sociale, ed è a quel punto che l’autocoscienza entra a far parte della storia evolutiva del mondo.

Dunque l’uomo si ritaglia un posto speciale nella realtà naturale perché, a differenza degli altri esseri animati, è in grado di controllare la formazione delle sue stesse abitudini mediante la fissazione di regole sociali. La principale conseguenza di questo stato di cose è che egli può deliberatamente modificare sia la direzione della “sua” evoluzione, sia quella dell’ambiente circostante. La capacità di scegliere tra diverse possibili alternative dà a sua volta origine alla morale.

Il naturalismo evoluzionistico pertanto discende dal fatto che l’esperienza, lungi dall’essere qualcosa di inesplicabile, viene vista come il risultato della continua interazione fra organismo e ambiente. Ne segue che gli stati della nostra esperienza non sono una barriera che ci separa dalla natura. L’organismo – il sé, il soggetto dell’azione – è uno dei fattori che determinano l’esperienza stessa, e non un’entità estranea a essa alla quale gli stati d’esperienza vengono, per così dire, “attaccati” quasi fossero una proprietà privata del soggetto. Tutto ciò significa ovviamente revocare in dubbio la tradizionale immagine cartesiana dell’io.

Secondo la visione deweyana la natura – intesa come la totalità degli oggetti della conoscenza – è intimamente legata alle “transazioni” che avvengono continuamente tra organismi e ambiente, e ciò significa che essa non può essere concepita prescindendo dall’interazione umana. A differenza degli empiristi e degli idealisti, Dewey sostiene che il mondo naturale non è “dato” in modo diretto né rappresenta una pura costruzione mentale. La natura è invece articolata su più livelli e, per quanto riguarda gli esseri umani, è stata costruita mediante un lento processo di tipo storico cui hanno fornito contributi a vario titolo la scienza, la tecnica, la magia, l’arte, la religione e tutti gli ambiti della nostra attività intellettuale.

Natura e cultura, insomma, non possono essere artificialmente scisse, né si può pensare che la natura intesa come prodotto culturale possa essere “completata”. Gli esseri umani la ri-costruiscono e la ri-valutano incessantemente, adattandola alle condizioni sempre mutevoli in cui si trovano ad agire.

Inoltre la “ricerca della certezza” è un obiettivo fuorviante, in quanto nessun privilegio dev’essere attribuito al soggetto. Contrariamente alle tesi di Cartesio e di Kant, Dewey afferma che anche il sé è una costruzione la quale – proprio in quanto tale – non viene esperita su un piano privato e immediato. Il sé è un elemento dell’ambiente al pari di altri elementi. Lo stesso può dirsi della natura che, più che come indipendente dal soggetto, dev’essere considerata alla stregua di “matrice” di oggetti ed eventi. Pertanto né il sé né la natura possono fornire dei fondamenti neutrali e oggettivi alla nostra conoscenza.

Tra la natura in quanto tale e la natura intesa come cultura non vi è una linea di confine netta, ma una separazione di tipo meramente funzionale. Questo significa avere a disposizione una natura “valutata” e una natura “valutabile”, il che consente al filosofo americano di evitare il tradizionale dualismo di fatti e valori. Se è vero che i valori sono “esperiti”, altrettanto vero è che i fatti non vengono semplicemente “dati”, bensì rappresentano il frutto di una selezione che ha origine da un ambiente complesso e da uno specifico contesto di ricerca. Ciò che è valutabile, pertanto, risulta tale solo a partire da esperienze ed esperimenti che consentono di implementare l’azione futura.

Dal momento che la realtà è un’unità organica formata da parti interrelate, non v’è alcuna necessità di accettare le barriere tra i suoi vari livelli ipotizzate dall’empirismo e dal positivismo. A livello politico tutto ciò si traduce in una concezione della democrazia vista come capacità di garantire l’interazione sociale. In altre parole gli individui non sono atomi isolati, ma entità la cui caratteristica principale è quella di essere in relazione l’una con l’altra, ed è stato giustamente notato, a tale proposito, che dagli scritti di Dewey emerge una sorta di “liberalismo sociale” piuttosto distante dall’individualismo del liberalismo classico. Nel quadro deweyano il mercato funziona nella misura in cui viene controllato dalle esigenze del bene comune, e una società è realmente democratica solo se tutti i suoi meccanismi sono subordinati agli interessi della comunità intesa globalmente.

Featured image, Dewey in 1902

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