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Maccarinelli gioca tutto in verticale, con i movimenti ascensionali e discensionali dei lampadari, portandoci su e giù dal piano terra al primo piano (e viceversa) della buia casa in cui il protagonista, conclusi gli anni di carcere, è rinchiuso da otto anni. Non vuole vedere nessuno, ma spera che il mondo lo stia ancora aspettando e prima o poi qualcuno lo venga a richiamare. E il mondo torna, incarnato però dai tormenti delle due sorelle gemelle Rentheim, l’una moglie e l’altra ex amante, che si contendono il figlio e il cuore dell’ex grande banchiere nordico.
L’intera vicenda si snoda armoniosamente in questa scansione verticale che detta il respiro delle scene, abitate da pochissimi oggetti d’uso (qualche sedia o poco più), che lasciano ampio spazio alla bravura degli attori. Di assoluto valore la prova di Massimo Popolizio nei panni di un Borkman che porta dentro di sé tutto il magone del proprio fallimento finanziario e personale. Popolizio cammina, bascula, s’inarca come un Atlante consumato dal tempo e dal peso della sua rovina. Frenesia, angoscia, cupo dolore, mai sopito desiderio di riscatto e senso di una fine vicina passano, battuta dopo battuta, omogenei e marcati. Al suo fianco Lucrezia Lante Della Rovere e Manuela Mandracchia che, oltre a contendersi il personaggio del marito/amante, competono per impugnare la palma della miglior prima donna in scena. Per entrambe Maccarinelli sceglie un tono enfatico, strozzato e a tratti urlato, via via più affannoso per il continuo smaniare sul palco da una sedia all’altra, come due anime in pena in cerca di una requie che solo la morte di John Gabriel potrà regalare. Un registro femminile che quindi stacca, e talvolta stona, rispetto a quello calibrato e preciso di Popolizio e degli altri bravi attori in scena (Mauro Avogadro e Alex Cendron).
La scena sarebbe quindi letteralmente saccheggiata da Popolizio, se non fosse per un finale in cui il regista tenta di ergersi su tutti con un coup de théatre scenografico assolutamente abbagliante, accecante, che ha il fine di far raggiungere al pubblico una mimesi col protagonista, i cui occhi, come i nostri, non sono più abituati alla luce. Una trovata che raddoppia nella calda magia invernale di una flebile neve che cade dall’alto, una volatile pioggerellina che apre al nostro stupore ma chiude alla vita di un John Gabriel che finiamo per compatire.
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