Come per tutti i grandi personaggi storici, anche la vita di John Lennon può esser scandita in fasi distinte. La morte della madre prima e l’incontro dopo con Yoko Ono, che sarebbe diventata la moglie nonché la musa ispiratrice dell’ex beatle più famoso ed amato, sono gli eventi che hanno segnato irrimediabilmente l’esistenza e la carriera di un autore che rappresenta un caso a parte, unico, nel panorama della musica Rock.
Unico beatle ad essere ricordato anche per la sua attività solista, personalità a dir poco complessa, uomo perennemente infelice, ha fatto della musica un diario personale nel quale annotare i sogni infranti di un bambino.
Ripercorrere la storia di Lennon attraverso la sua musica è opera lunga e complessa che richiederebbe libri interi; in questi decenni i musicologi di tutto il mondo hanno scritto tutto quanto fosse possibile sul gruppo più famoso di sempre e sull’autore più controverso. Io mi limiterò ad analizzare, in occasione del trentunesimo anniversario dalla sua scomparsa, l’album più importante della sua carriera solista: John Lennon/Plastic Ono band (1970)
Dopo la sbornia della sperimentazione a tutti i costi con i due patetici album Unfinished Music, No. 2: Life With The Lions e The Wedding Album, Lennon torna alla forma canzone a lui più congeniale, all’esito di un anno di terapia presso lo psichiatra americano Artur Janov nel tentativo continuo di liberarsi dei suoi fantasmi di infanzia. Ciò che ne scaturisce in musica è proprio John Lennon/Plastic Ono Band.
Ogni singolo elemento di quest’opera rimanda all’essenziale, alla semplicità, alla desolazione.
Assoldato al basso l’amico di sempre sin dai tempi di Amburgo, Klaus Woormann, il fido Eric Clapton alla chitarra e un certo Ringo Starr alla batteria, Lennon registra un album che risuona di echi nichilistici e dolenti. Forse l’album più sincero che abbia mai ascoltato, di certo il miglior di Lennon solista.
Il disco si apre con la straziante Mother (link). Rintocchi di campane a morto aprono un corridoio musicale in cui rabbia e dolore trattenuti per tutta una vita trovano finalmente sfogo. Sono caduti gli argini tenuti in piedi dalla overdose di colori e psichedelia degli anni 60:
Mother, you had me, but I never had you
I wanted you, you didn’t want me
So I, I just got to tell you
Goodbye, goodbye
Father, you left me, but I never left you
I needed you, you didn’t need me
So I, I just got to tell you
Goodbye, goodbye
Batteria scarna, isolati accordi di piano, basso presente ma mai invadente: ecco il corredo di un Lennon solo, abbandonato dai genitori. Lennon ha tentato per tutta la vita di esorcizzare la perdita prematura della madre e l’abbandono del padre; commovente e a tratti straziante, la sua musica ha trasudato emozioni fin quando è stata mossa da questa spinta emozionale. Venuto meno questo fardello dell’anima, la sua arte è presto scemata in banalità raramente degne di nota.
La canzone si chiude con una frase che racchiude in sé il significato dell’intera esistenza di Lennon:
Mama don’t go
Daddy come home.
Dopo la confortante Hold on con cui John tenta di farsi coraggio ( Hold on John, John hold on
It’s gonna be al right), si scade nella rabbiosa I found out (link) : canto e chitarra taglienti come lame, basso pulsante, Ringo perfetto come un metronomo: ecco allestito un brano che può ben considerarsi come padrino di certo punk e certo grunge ancora prossimi a venire.
Prima di arrivare a Working class hero (link). Brano per sola chitarra acustica e voce, Lennon rimescola il suo pessimismo esistenziale passando in rassegna tutto quanto abbia segnato nel male la sua crescita, dalla scuola allo show business, dalla religione alla Tv, dalla politica alla famiglia. In questo brano si erge a leader della rivolta, tradendo ancora una volta i suoi intenti di tenersi fuori da ogni iniziativa politica.
Dopo la claustrofobica Isolation, cupa ballad per piano e voce, e la sferzante Remember, Lennon si poggia placidamente sugli accordi caldi di Love. Niente di più ingannevole: è l’amore che non ha mai avuto e che lo ha già irrimediabilmente segnato, nonostante la relazione salvifica con Yoko. Per quanto il brano possa spiccare per dolcezza ed echi di romanticismo, prelude alla più triste discesa nel baratro.
Ancora, il bozzetto folk di Look at me, tenero, infantile bisbiglio con cui l’autore non nasconde la sua incertezza di esistere. Senza vergogna, dichiara la sua debolezza chiedendo aiuto: “Here I am/ what am I supposed to be?”
Eccoci arrivati infine a God (link), forse il miglior brano di Lennon, almeno nella sua carriera solista.
Rassegnate le dimissioni di portavoce di una generazione di sognatori, smessi i panni dell’autore impegnato,
smaltita la sbornia delle droghe e delle grandi concitazioni, dei raduni e delle grandi mobilitazioni, l’uomo che più di ogni altro ha contribuito a fare degli anni ’60 gli anni della contestazione in musica e della pace, che ha reso moderna la musica pop elevandola ad un livello artistico dapprima sconosciuto, rinnega adesso ogni sogno, ogni ideale. Il suo credo è un non-credo.
Non più tessitore di sogni, ora è solo John. Anche i giovani crescono.
The dream is over: gli anni ’60 finiscono convenzionalmente con questa frase.
The dream is over
What can I say?
The dream is over
Yesterday
I was the Dreamweaver
But now I’m reborn
I was the Walrus
But now I’m John
And so dear friends
You’ll just have to carry on
The dream is over.
50 secondi ancora per arrivare lì da dove si era partiti, in una spirale di tormenti senza fine : registratore casalingo, chitarra e voce totalmente “assente” ( link).
My mummy’s dead
I can’t get it through my head
Though it’s been so many years
My mummy’s dead
I can’t explain
So much pain
I could never show it
My mummy’s dead.
Approdato ad un ateismo estremo, terra desolata in cui vivere da solo, Lennon consegna il suo testamento in musica. Le opere successive non riusciranno a replicare le stesse emozioni e la stessa sincerità racchiuse in questi scarni 40 minuti di registrazioni. Verrà Imagine, è vero, ma quella sarà decisamente altra storia e altra musica.