Stoner è un libro serio, anche troppo. Williams sa scrivere, sa narrare stati d’animo anche impercettibili, e in qualche modo riesce a portare avanti una storia sul nulla. Il romanzo narra la vita di William Stoner, figlio di contadini che va all’università per studiare agraria, si innamora della letteratura inglese e non torna più indietro. Diventa professore e conduce la sua vita attraversando due guerre mondiali, professori che cambiano in università e pochi rapporti umani veri. Quello che però lo contraddistingue è una certa passività. Non agisce gli eventi, li subisce. Sa dimostrarsi inflessibile, ma la sua è un’inflessibilità che non porta a nulla. Aspetta. Accetta quel che accade. Vive in un mondo rarefatto, distaccato, dal quale le passioni umane sembrano bandite. A volte il narratore stesso è fin troppo astratto, con una narrazione che sembra più virtuosismo che reale necessità.
Non lo so, non posso dire che sia un brutto libro, ma leggerlo è stato faticoso e sono stata più volte sul punto di abbandonarlo. È grigio come la sua copertina, come il suo protagonista di cui si vede solo una parte del volto, quasi che stentasse a proporsi come protagonista del libro che porta il suo nome. Parlando con un collega gli ho detto che è deprimente, e lui mi ha risposto che la vita è deprimente. No, grazie, se voglio deprimermi mi basta un telegiornale.
Avete presente L’attimo fuggente? Lo so, la citazione dovrebbe essee quella di Henry David Thoreau e non quella di un film che lo cita, ma io a Thoreau sono arrivata grazie a quella magnifica interpretazione di Robin Williams. “Molti uomini hanno vita di quieta disperazione” ci ricorda, e quella di Stoner e di troppe persone è una vita di quieta disperazione.
Grazie, ma anche se John Williams sa scrivere io preferisco fare un giro sulla cattedra come proposto da Robin.