Devo ammettere che a un primo ascolto il nuovo disco di Jon Mueller mi aveva un po’ spiazzata, complice anche il sito internet di “Death Blues“, a prima vista piuttosto pretenzioso, una roba da far impallidire il Teatro Totale di Gropius e che è diverse spanne avanti rispetto a quel che si vede in giro in odore di multidisciplinarietà (vedi l’ultimo Ben Chasny). Insomma, qualcosa a cui (purtroppo) non siamo abituati.
Per i non iniziati: il progetto è nato nel 2011, anno in cui Mueller si trovava a New Orleans. A contatto con le persone del luogo è stato contagiato dal senso di precarietà imperante, ma anche dalla capacità di vivere più intensamente e consapevolmente il presente che molta gente ha ritrovato dopo l’avvento del disastroso uragano. Tutto ciò ha ispirato Death Blues, che – come suggerisce il titolo – va a ricercare nella malinconia del blues lo slancio per celebrare l’esistenza, grazie ad una sinergia vitale, presente e positiva che la connessione tra persone può generare anche in circostanze avverse. In un tale slancio esistenziale Mueller è riuscito a creare del rumore spontaneo intorno a sé: negli ultimi tre anni ha coinvolto numerosi artisti e appassionati nel progetto e – oltre a scrivere un vero e proprio manifesto – ha organizzato reading, performance, concerti, installazioni.
Non-Fiction rispecchia perfettamente quest’idea di caos ordinato e spiritualità viva e pulsante, approfondendo ulteriormente quell’indagine iniziata nel 2012 con Death Blues e che continuerà nel nuovo album in uscita a settembre, Ensemble. Le due lunghe tracce del disco partono da una pulsazione che cresce esponenzialmente, arricchita da voci e chitarre percosse, in una ciclicità che trasforma la jam in un mantra trascinante. Protagonista è ancora la batteria, che sia ritmica o processata, a scuotere l’ascoltatore in un climax febbrile. La poliritmia viva è lì per celebrare la necessità di essere partecipi del momento presente e attivi nel ricreare una propria verità, tra ipotesi rituale e azione focalizzata. Il registro delle voci ne è indicativo e alterna cantilene, mantra, spoken word, che – sovrapponendosi velocissimi – dislocano il crescendo in un’esplosione perfettamente calibrata. La seconda traccia è sicuramente più rock e vicina al disco gemello uscito nel 2012 per Taiga Records.
La forza propulsiva del messaggio non tralascia di mantenere un equilibrio e una centratura costanti, là dove rock e massimalismo resistono qui a ogni tentazione psichedelica. A un certo punto mi viene voglia di accostarlo ai Boredoms di Vision Creation Newsun, nonostante Mueller disintegri ogni ipotesi pop e goliardica sotto una scure sacrale, bandendo ogni compiacimento nostalgico.
La copertina di Bruce Paulson (sorta di genio del letter pressing) impreziosisce il packaging di Sige, al solito, irresistibile.