Il ladro letterario può colpire dovunque. Accecato dall’ideologia che l’esproprio di libri sia l’unico moralmente giustificabile, anche più dell’onnicomprensivo esproprio proletario, egli non si pone limitazione alcuna nel defraudare conoscenti, amici e parenti. Da tempo questa figura ambigua progetta una colossale rapina alle librerie, carcere restrittivo per un sapere ivi rinchiuso sotto le spoglie del capitalistico Mercato. Finora ha operato perlopiù nell’ambito familiare con risultati alterni. I capolavori rubati sono infatti stati pochi ma in compenso le pur numerose delusioni non l’hanno allontanato da questa pratica criminogena. A tal proposito l’ultimo furto registrato risale al libro “La casa del sonno” di Jonathan Coe, sottratto a un fantomatico fratello. Incuriosito dalla nomea dello scrittore di questo libro, amato trasversalmente da pubblico e critica e considerato da molti il miglior scrittore d’oltremanica, il subdolo ladro ha agito in un pomeriggio assolato, mettendo a segno il colpo. Jonathan Coe è un pacioso cinquantenne che ha svolto una miriade di lavori prima di arrivare al successo. Professore di poesia inglese per un breve periodo della sua vita, ha la compostezza del tipico accademico britannico. In numerose interviste dichiara di prendere la scrittura come un lavoro normale: dal lunedì al venerdì si reca nel suo “brutto studio di Chelsea, dalle pareti color vomito” e dalle 9.00 alle 17.00 si dedica esclusivamente alla stesura dei suoi libri. Un lavorio incessante che traspare fin dalle prime parole de “La casa del sonno”: una scrittura iper-sorvegliata dove le invenzioni narrative vengono controllate da un’immaginazione che non lascia nulla al caso. Innanzitutto la scelta di suddividere il libro tra passato e presente con la breve nota all’inizio in cui si avvisa che i capitoli dispari sono ambientati nel 1983-1984 mentre quelli pari nelle ultime due settimane del Giugno 1996, è fin troppo meccanica e “urlata”: anche il più sprovveduto dei lettori sarebbe arrivato ben presto da solo a questa conclusione e la noticina risulta un affronto alla sua perspicacia. La prima sensazione che si avverte nella lettura è la rilassatezza con la quale Coe racconta la storia, la volontà precisa di prendersi molte pagine per presentare i personaggi e lasciare poco spazio all’azione. Anche quella che dovrebbe essere la peculiarità del libro, l’influenza del passato su un presente che viene svelato poco a poco (la narrazione tra due diversi piani temporali che si intrecciano tra loro è un espediente che comincia ad essere abusato), viene dispiegata sempre con poca verve.
Sia chiaro, “La casa del sonno” è un libro elegante e scorrevole ma che non riesce mai a sorprendere del tutto. I personaggi sono maschere troppo schematiche, le cui azioni sono facili da prevedere. Non c’è vita in loro, ridotti come sono a rappresentare una dichiarazione di intenti: le discussioni cinematografiche di Terry, ad esempio, sono pedanti e troppo artificiose per destare empatia; la svolta conformistica della lesbica femminista Veronica, oltre che lasciar intravedere – a mio avviso – un certo sessismo raffazzonato, denuncia banalmente la frustrazione di aspettative che la vita ti costringe ad abbassare. Anche la lieve vena comica che percorre sporadicamente il libro lo fa oscillare nell’indefinitezza di uno stile mai deciso, che si rifugia nell’ironia per evitare il rischio della noia. Rischio che a volte però si tramuta in sbadiglio proprio là dove dovrebbe invece brillare: mi riferisco all’episodio della lettura della poesia del bambino in classe, che in una decina di pagine provoca al massimo una stirata di labbra più che una vera risata. L’unico episodio degno di nota è la simpatica trovata dell’articolo di giornale con le note sbagliate, scritta con intelligenza. Questo episodio non basta però a salvare il libro dal fastidioso sapore del “già visto”: viene da pensare che se Jonathan Coe è il miglior esponente dell’odierna generazione di scrittori inglesi lo stato della letteratura britannica è messo proprio male. Nell’elegiaca quarta di copertina dell’Universale Economica Feltrinelli la vicenda viene presentata (a sproposito) come “un castello dei destini incrociati”, con un’iperbole esagerata che vorrebbe ammiccare a Italo Calvino. In realtà i destini dei personaggi sono irrisolti e trattati con poca partecipazione, ridotti a meri pretesti per esporre idee dell’Autore di cui non si sentiva la necessità. E quando invece Coe vorrebbe lasciarsi andare all’emozione, lo fa con così mestiere che il tutto si riduce a un sentimentalismo smaccato, liftato, plastificato da telenovela, come nell’episodio della protagonista Sarah che apprende dalla mamma di Alison della vita e della morte della sua ex-ragazza. Probabilmente il grande successo del precedente romanzo “La famiglia Winshaw”, ha reso troppo consapevole del suo talento Coe tanto da fargli assumere in questo libro il ruolo del narratore distante che racconta tante storie con la pretesa di raccontarne Una, quella dell’Inghilterra, della Thatcher prima e di Blair poi. Ma preso com’è dal tentativo di cogliere lo Zeitgeist (concetto che non a caso egli cita più volte nel libro) di due epoche differenti, Coe manca clamorosamente l’idea più feconda della storia: il tentativo del direttore della clinica di riuscire a sconfiggere l’umano bisogno di dormire, perché nel sonno, anche l’uomo più forte diventa inerme, trattandosi solo di tempo perso che si potrebbe usare in maniera più proficua. Un errore che si può spiegare parzialmente con la volontà di far rientrare il direttore Gregory Dudden nell’anacronistica e trita figura dello scienziato folle, arrogante, antipatico. Qui infatti Coe dà il peggio di sé elevandosi moralmente sulla propria creatura, non concedendogli nessuna attenuante e scrivendo più per partito preso che per vero interesse verso il personaggio. E così ne “La casa del sonno” i protagonisti soffrono sì di narcolessia e insonnia, ma il sonno è solo il fragile legame che unisce diversi destini, non approfondito nemmeno là dove il tema desta curiosità. In definitiva un libro scialbo, poco coraggioso che ancora una volta rende incomprensibili i furori encomiastici di tanta critica adorante.