In “Cecità” nulla e nessuno ha comunque un nome. Il paese (o addirittura il mondo, non è dato saperlo) nel quale si manifesta l’epidemia non è mai menzionato e anche i pochi protagonisti della vicenda sono riconoscibili per epiteti. Le case non hanno colore, i corpi non hanno forme e nemmeno l’unica vedente della storia, la moglie del medico, si lascia mai andare a descrizioni. Tutto è indifferente per i ciechi ma lo era già prima della perdita della vista. Quanta sofferenza ci passa davanti agli occhi senza che si riesca ad imprimere nelle nostre retine? Quanto dolore? Quanta ingiustizia? L’opera di Saramago ce lo ricorda ad ogni capitolo, la sua scrittura è dolentissima, sembra essere vecchia di migliaia di secoli, il male si rinnova completamente nelle forme ma il destino del suo eterno ritorno resta ineluttabile. Infatti in “Cecità” ad essere anonimi non sono soltanto luoghi e persone ma anche il tempo, come a voler rendere questo monito diacronico piuttosto che meramente sincronico. Così come sempiterne sono le reazioni umane di fronte a una catastrofe. Invece di cercare una soluzione comune o il bene della maggioranza, tra i ciechi internati nascono prima le ostilità, e poi i gruppi prevaricatori. Non si ha la forza di ribellarsi contro l’autorità e allora si cerca subito la scappatoia della violenza interna, contro gli infermi propri simili. Saramago si diverte a giocare con i suoi protagonisti analizzandoli come se compiesse uno studio sociologico di cui è facile prevedere i risultati: in breve tempo un gruppo di ciechi malvagi confisca il poco cibo che il Governo manda agli internati e si fa pagare prima in soldi, e dopo in natura dalle donne delle altre camerate. In “Cecità” gli uomini fanno sempre figure grame. O sono sodali nella violenza o, al massimo, impotenti e bisognosi. Le donne invece posseggono ancora quella purezza e solidarietà che le rende protagoniste degli episodi più poetici del libro, come quello della lavata purificatrice sotto una pioggia battente. La simpatia di Saramago verso “l’altra metà del cielo” si estrinseca anche nella scelta di fare della moglie del medico, la protagonista, una specie di Messia laico, l’unica vedente tra un esercito di non vedenti che dovrà salvare i suoi compagni nelle situazioni più difficili. La storia, come detto, è lineare e divisa in due parti speculari, tra lo spazio angusto del manicomio e poi in quello più grande del paese, dopo l’avvenuta liberazione. Ciò che continua ad imputridire l’atmosfera è l’olezzo dei bisogni corporali che i ciechi ormai fanno dappertutto, liberi da quei vincoli di dignità che la vista imporrebbe. Saramago insiste così tanto su questa abiezione dell’uomo che sembra spesso di respirare quell’aria malsana, di muoversi con i protagonisti tra i rifiuti di un’umanità così velocemente abbrutita, da far sospettare che questa degenerazione sia sempre latente in noi e aspetti di uscire fuori alla prima occasione. Dopo una parentesi mistica alquanto inopportuna, giunge il finale e con esso una piccola fiammella di ottimismo. La cecità difatti scompare inaspettatamente così come era comparsa, come se avesse soltanto voluto scoperchiare con il suo passaggio l’indifferenza che l’uomo prova per i propri simili. Un vaso di Pandora che dopo aver liberato malattia, pestilenza e morte, conserva sul fondo la più grande tra le illusioni umane: la speranza di un futuro diverso da un passato e da un presente che sembrano invece irredimibili. “Cecità” ci lascia allora con la domanda se l’uomo saprà imparare da questa epidemia a vedere la sofferenza dei suoi simili, se saprà riacquistare la vista di fronte alle ingiustizie in cui ha costretto miliardi di suoi simili. Il successivo “Saggio sulla lucidità”, sembra rispondere che nulla è servito.
José Saramago: Testimone di una “Cecità” Crudele
Creato il 22 settembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazinePossono interessarti anche questi articoli :
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