Jozef Baran
Poeta, giornalista, reporter, autore di oltre trenta libri. E’ uno dei rappresentanti più autorevoli della corrente contadina nella poesia polacca contemporanea. Nel suo diario si autodefinisce “figlio dei campi e dei boschi di Borzęcin”. Le sue poesie sono state pubblicate in Russia e negli USA. Singoli versi sono stati tradotti in quasi tutte le lingue slave, in inglese, tedesco, spagnolo, svedese, ungherese ed altre ancora. Inoltre le sue poesie hanno ispirato molti compositori e cantanti, e sono state inserite in diverse antologie scolastiche. E’ nato a Borzęcin il 17 gennaio 1947. Dopo la laurea in filologia polacca, conseguita presso l’Università Pedagogica di Cracovia, ha collaborato come giornalista a diverse riviste e giornali culturali, quali “Wieści”, “Echa Krakowa”, Gazeta Krakowska”, “Dziennik Polski”, ed altri ancora. E’ stato più volte premiato per la sua creazione. Dopo il 2000 ha viaggiato molto nei diversi continenti e ha descritto i suoi viaggi nei diari “Koncert dla nosorożca” (Concerto per il rinoceronte) e “Przystanek Marzenie” (Fermata Sogno).
Il suo talento poetico fu scoperto dal noto critico polacco Artur Sandauer, il quale scrisse di lui che “arriva con la sua lirica direttamente al cuore della gente”. Nella sua prima raccolta “Nasze najszczersze rozmowy” (I nostri colloqui più sinceri, 1974), il poeta risale alle fonti della sua biografia, alla sua origine contadina. Prevalgono in essa poesie che descrivono il paesaggio della campagna natia, il calore del focolare domestico, le persone più care. Spesso il metodo della personificazione permette al poeta di identificarsi con un albero, con il sole, con un prato o un sentiero tra i campi. Questi elementi del paesaggio, infatti, sono al tempo stesso elementi della vita umana, determinano la natura dell’uomo e del poeta, consentono di fargli confessare:
e più di tutto sono il poeta
dei timorosi
di quelli con la foglia di pioppo del sorriso
incollata alle labbra e tremante
ad ogni più forte
soffio delle parole
Anche quando il poeta abbandonerà la campagna per trasferirsi in città, resterà sempre legato ad essa. In seguito l’inquietudine del tempo della maturità e l’amarezza dell’esistenza si insinueranno nella sua creazione, ma se il poeta non perde la fede nel senso della vita, se non si lascia “invischiare”, ciò avviene per la possibilità di rievocare le tradizioni in cui è cresciuto. Perché malgrado le condizioni esteriori, malgrado i mutamenti intervenuti nella sua psiche, Baran rimarrà sempre colui che attinge l’ispirazione poetica dalle proprie origini. Gli antenati, la natura, la natia Borzęcin, tornano continuamente nelle sue poesie. Come egli ha detto in una intervista rilasciata all’Agenzia Stampa Polacca: “Non temo che la mia poesia appaia troppo “locale”. Questo villaggio è dappertutto. Dappertutto c’è lo stesso cielo, la stessa Terra, le stesse stelle…dunque ciò che è locale può essere universale”.
Baran è un sensibile osservatore degli uomini, poeta forte e tenero al tempo stesso. Si considera poeta per vocazione. Scrive per partecipare ai lettori le sue emozioni. Lo ispira la vita, che si svolge sotto i nostri occhi. Crede nella ispirazione poetica. Cerca di trasferire subito le sue emozioni sulla carta, a volte esse rimangono in fieri più a lungo, finché non si concretizzano trasformandosi in poesia. Jozef Baran è un autore che completa la sua sensibilità lirica con la saggezza del cuore e della mente.
Poesie di Józef Baran tradotte da Paolo Statuti
La famiglia durante la mietitura
mio padre con l’unzione del prete
suona il gong del sole
per una volta ancora
esegue il primo taglio delle biade
ed ecco di nuovo ci trasciniamo
con tutta la famiglia
attraverso i campi di stoppia
sferzati dalla frusta della calura
punzecchiati dai ciechi tafani
in questa annuale crociata
nella terra santa
per il pane
la mietitura è la nostra
più importante stazione
portiamo sulle spalle
arrossate dal calore
le croci del cielo di luglio
ricurvi
ritmicamente leghiamo i covoni
passiamo sei meriggi
come sei deserti
dove le uniche oasi
sono le brocche con l’acqua
nascoste nelle biche
mani e gambe abbiamo punte
dai taglienti steli
finalmente le messi conquistate
stanno allineate sulla stoppia
mia madre porge a mio padre
il velo della Veronica
per asciugarsi
il vecchio volto
coperto di sudore
tra le brocche domenicali
ci sediamo in cerchio
il grande riposo
iniziamo
Scopritore innamorato
uno ha scoperto la ruota
un altro ha costruito l’aliscafo
un altro ancora farà i primi passi su Marte
e io ho scoperto Te
su questo strano pianeta
Terra
e da quel momento
a ogni alba
mi sveglia il pensiero
lieto come un cardellino
che tu davvero
esisti
Ritorno
quasi fosse passato di qui l’uragano del tempo
nello stanzone ingombro
un vecchio filatoio
come timone di una nave fracassata
sfuggito a mia madre
di mano
in un angolo del giardino trascurato
un’incudine abbandonata
senza mio padre
in cielo vola un mazzo
di chiavi arrugginite (1)
con nessuna di esse aprirò
quel casolare
ancora a lungo resto chino
sul pozzo
ascoltando inutilmente gli echi
richiamando i morti
dei dell’infanzia
che un tempo mi sembravano
immortali
(1) Klucz (chiave) in polacco significa anche uccelli in formazione a “V”.
Filosofia dell’albero
non è vero
che sono imprigionato
consapevolmente rinuncio
a milioni di inutili gesti
indegni d’un filosofo
perché mai disperdere invano energia
quando si conosce il proprio posto
sulla terra
in esso indurendomi esisto
sono tutto cielo e tronco
fervido atto di volontà
vado dritto allo scopo
concentrandomi
attorno all’dea
di tronco
ecco tendo i muscoli dei vasi
prendendo dalla terra i succhi:
e maturano in me i frutti
soffio:
cadono dai rami
sono maestro di pazienza
so che per giungere alla libertà
si matura pian piano
e quando la si ottiene
si è liberi da ogni arbitrio
senza poter contare su nessuno
e sotto di me
sopra di me
intorno a me
passano da un posto
all’altro
tormentati dall’ansia
uccelli nuvole persone
perché continuano a non sapere
su cosa hanno i piedi
In un pomeriggio con le oche
da qualche parte vicino Florence
A Leszek e Barbara Czuchajowski
felici spensierati istanti
sul lago
dal nome sconosciuto
dove parliamo del più e del meno
con le oche selvatiche canadesi
che sfilano sul prato
hanno i colli signorilmente lunghi
e neri come guanti
fanno con noi colazione sull’erba
e fanno la cacca fanno la cacca
dove capita
stupidelle senza pensieri
amiche al sole al lago ai boschi
e ai piccoli ricci sull’acqua
il venticello prende e
porta via con sé
le nostre strane parole polacche
incrociate con il loro schiamazzo
poi sdraiati in silenzio
sulle dure panchine
con la terra di Colombo sotto le teste
guardiamo le oche che si allontanano da noi
senza salutare
come le barchette di carta dell’infanzia
solennemente ondeggiando
anche noi partiremo tra poco
lasciandoci dietro questo lago e i dintorni
non turbati dalla nostra presenza
come se noi qui
non si fossimo mai stati
Le bigotte
perché senza sosta non credevano
che andranno in cielo
si inginocchiavano
battevano la testa sul confessionale
stringevano le gambe
di Gesù che deve a Dio lo spirito
e raccontandogli sempre gli stessi peccati
fino alla noia sempre gli stessi
mendicavano un pezzetto di paradiso
verso sera
il nervoso sacrestano
le metteva alla porta
soltanto allora Gesù
poteva
sgranchirsi un po’
e per rilassarsi
giocava a carte con gli apostoli
Favola sui gatti
non le pareti
ma i gatti hanno le orecchie
agenti a quattro zampe
di Dio
mandati sulla terra
a spiare Adamo
strusciando vezzosamente
i dorsi
si insinuano nelle grazie
dei nostri casolari
non dicono niente
origliano
i più segreti bisbigli
non sfuggono alla loro attenzione
abbondano sui ginocchi
dietro l’orecchio sotto le gambe
quando li mandiamo fuori origliano
dietro la porta dell’atrio
di notte i gatti si ficcano sotto i letti
accendono le rosse lanterne degli occhi
e alla loro luce
tutto accuratamente annotano
(i taccuini nascondono la mattina nel buco dei topi)
e poi al giudizio universale ci chiediamo
come fa Dio a sapere tutto di noi
Mondi
si può essere in una goccia d’acqua
scopritore di mondi
si può
girare il mondo intero
e non scoprire niente
Dichiarazione tardiva
si incontrarono dopo anni
sulla strada
e non finiscono di stupirsi
che entrambi siano così canuti
quasi maschere che si fingono vere
nella commedia dell’arte
lei un po’ sorda e lui non sente bene
dice che vanamente ha girato mezzo mondo
a lei invece è rimasta quella città
in tutti quegli anni
nemmeno sai come ti amavo
grida a lui nell’orecchio
per poco non impazzivo d’amore
ma tenevo tutto segreto
la gente si volta a guardarli
come si porgono il mazzetto di parole appassite
in cui è rinato per un istante l’anticipo di primavera
di cinquanta primavere prima
A mia madre
Così Ti vorrei vedere
raggiante:
come alla finestra tra
i geranei
sorridi ai
passanti,
“Dio sia lodato” –
Ti salutano i conoscenti.
Camminiamo sul prato a
braccetto,
cogli per un mazzetto i fiori
più belli,
e su una tranquilla appartata
panchina
leggiamo insieme
le poesie.
Poi torniamo generosamente
appagati
dalla musica dei grilli,
dal turchino cielo.
Così Ti vorrei vedere
raggiante,
spezzare con Te la felicità
come il pane.
(C) by Paolo Statuti