Shimizu Takashi è Ju-on, e viceversa. Il regista giapponese è direttamente connesso alla sua opera, per la fortuna e i riconoscimenti che gli ha portato e perché ogni capitolo di Ju-on è diretto da lui.
Il primo episodio della serie, sicuramente tra i migliori, è suddiviso in sei capitoli e si compone come un patchwork di storie tremende, sviluppate in maniera disorganica e senza una trama delineata e con personaggi non approfonditi, stabilendo le coordinate, anche se in maniera grezza, delle poetica del regista giapponese.
Le storie, alcune delle quali torneranno dei film successivi, ruotano tutte intorno ad una casa infestata dalla maledizione che vi alberga e dai suoi (onnipresenti) fantasmi, pronta a diffondersi in maniera virale.
Girato con un budget ristretto, con una qualità video che rasenta l’amatoriale (senza che ciò ne pregiudichi il valore, ma anzi acquistando in autenticità) ed effetti speciali poveri, trascorre per una prima, breve, parte in maniera abbastanza uniforme fino a che, in un climax molto intenso, si apre una porta, letteralmente e metaforicamente, sull’orrore.
È qui che Shimizu rivela il suo talento, e lo farà ancor di più in alcuni episodi successivi della saga, nel momento in cui spalanca il suo occhio sul terrore, descrivendo l’incubo e l’inquietudine come pochi altri al mondo hanno saputo fare, mostrando i fantasmi, ossessivi e soffocanti, senza paura del ridicolo, in un film che trasuda un inesorabile senso di malattia. Il seme è gettato.
Spostando il centro narrativo dalla casa infestata, vera protagonista dei capitoli televisivi, ai personaggi, pur rimanendo il film organizzato in base alla medesima struttura dei precedenti e mantenendo la maledizione – e i fantasmi ad essa collegati – come motore della storia, Shimizu ottiene un’opera ancora più efficace e diretta, immersa per tutta la sua durata in un’atmosfera di inquietudine, fastidioso senso di attesa e di tensione.
L’esplicitazione del fantasma e il ripetersi di situazioni conosciute o intuibili, lungi dal rappresentare un limite del film, riescono a creare una suggestione quasi irresistibile, con figure che, oramai definitivamente mature e orchestrate con l’enigmaticità a loro più consona, entrano pervicacemente sia nell’inconscio superficiale dello spettatore che nel più profondo immaginario collettivo.
Ju-on fa paura, con i suoi gatti neri e il suo bambino emaciato e pallido, come un rumore sgradevole che non ci abbandona. Racconta Shimizu che la produzione, e lui stesso, avevano pensato ad un film più unitario, ma che l’idea di abbandonare totalmente lo stile dei primi Ju-on alla fine era risuonata poco convincente.
Il secondo capitolo cinematografico prosegue sulle stesse linee direttive, con la suddivisione in sei capitoli e la casa a vivere della sua maledizione letale, ma si colloca, da un lato, esplicitamente tre anni dopo gli eventi della pellicola precedente e soprattutto, dall’altro, inserisce un elemento di continuità tra i sei capitoli, una donna incinta immune al contagio, che permette al regista di affrontare le consuete “dinamiche spaventose” con modalità abbastanza nuove.
Shimizu è tecnicamente sempre più abile, perché di abilità ce ne vuole per tornare sui noti luoghi del delitto con originalità, e il film riesce a inquietare ancora, apportando, tra l’altro, elementi quasi metacinematografici: proverbiale è la battuta recitata dalla protagonista, un’attrice specializzata nei film horror, che ad un certo punto afferma di essersi stancata di fare sempre le stesse cose. È vero che il film non stupisce più, ma risulta, alla fine, un capitolo nel complesso riuscito, pur scontando, probabilmente, un’eccessiva esposizione visiva dei suoi fantasmi.
È il momento, per Shimizu, di trasferirsi (idealmente) in America e di affrontare il remake dei suoi Ju-on con una produzione statunitense, lasciando invariato il Giappone (e la casa) come location ma confrontandosi con un corpo/volto televisivo (americano) conosciuto a livello planetario come quello di Sarah Michelle Gellar. Per quanto la pellicola americana ricalchi in larga misura l’originale, il film funziona poco o niente.
Il regista, nella sua “fuga” oltreoceano, non si porta dietro solamente un bagaglio tecnico invidiabile, ma si diverte a inserire rimandi e citazioni che si riflettono da un rifacimento all’altro del suo inesauribile capolavoro: in “The Grudge”, in particolare, Ozeki Yuya, Fuji Takako e Matsuyama Takashi interpretano gli stessi personaggi che interpretavano negli originali giapponesi; e ancora, le tre ragazze che incrociano Karen e Doug, i protagonisti della pellicola americana, mentre camminano verso il cimitero, sembrano una chiara citazione ad Izumi, Chiharu e Miyuku, le tre ragazzine del film giapponese originale.
Come giustamente sottolinea Giovanni Idilli, a questo punto della saga, giunti a “The Grudge 2”, ci si sente piuttosto frastornati: tra remake, sequel, remake di sequel e sequel di remake, oramai, alla sesta trasposizione dell’idea di Ju-on, non si sa più bene dove guardare. E forse è proprio questo l’elemento di interesse (ma non è l’unico) che la saga del rancore può ancora suscitare. La maledizione attraversa l’oceano e contagia il suolo statunitense, diffondendosi nel successivo capitolo, uscito straight to video.
L’universo creato dal regista nipponico vede un’idea ossessiva e ossessionante, violenta e paurosa, riproporsi e ripresentarsi quasi all’infinito e poco conta che possa risultare ripetitiva, perché la saga di Shimizu assolve pienamente alla funzione mitopoietica del cinema.
La poetica di Shimizu è terrorizzante, perché racconta di un male direttamente connaturato alle nostre azioni, presente ovunque e ovunque minaccioso, immanente e imminente, quasi si trattasse, agli occhi di un occidentale, di un panteismo spaventoso, crudele e cattivo, in cui le colpe, anche quelle degli altri, si espiano solo attraverso un castigo feroce.
Written by Alberto Rossignoli
Fonte
M. Lolletti – M. Pasini, “Storie di fantasmi. Il nuovo cinema horror orientale”, Foschi Editore, Forlì 2011