Nella sua visione personalissima delle cose di governo, Francisco Franco si considerava una sorta di “reggente” a vita del regno di Spagna che, alla sua morte, sarebbe stato ri-consegnato al Borbone più meritevole. Cioè a quello capace di assicurare meglio il mantenimento dello status quo. Il 20 novembre 1975, quando dopo una lunghissima agonia il Generalissimo muore, il giovane e (apparentemente) poco brillante Juan Carlos di Borbone è pronto a prendere il posto dell’uomo che per 40 anni ha tenuto nel suo pugno la nazione.
Il principe vive in Spagna fin dall’adolescenza, a seguito di un accordo fra suo padre, don Juan conte di Barcellona e lo stesso Franco, è sposato con Sofia di Grecia, ha già tre figli ed è guardato con sospetto praticamente da tutti. I legittimisti sostenitori di don Juan lo considerano una marionetta nelle mani del dittatore, per i franchisti è pur sempre figlio ed erede di un pericoloso liberale, don Juan appunto il quale, fra l’altro si sente scavalcato nei suoi diritti ereditari.
Tra il 1962 e il 1969 (ma in pratica fino al 1975) Juan Carlos resta all’ombra del Caudillo, e vive sui gradini di un trono che, nella realtà, non esisteva più e, fatto unico nella storia contemporanea, deve essere resuscitato. Contro questa “restaurazione”, concepita in modo da non allontanarsi dai principi guida del franchismo, tramano in molti, prima di tutto gli uomini forti del regime, i quali guardano con sospetto al giovane Borbone considerato debole e poco intelligente. La vita di Juan Carlos nella società franchista è abbastanza complicata complicata, gli è praticamente impossibile prendere una posizione di fronte a qualsivoglia problema o questione. Se si fosse allontanato dalle linee guida del regime o ne avesse contestato le posizioni i duri della Falange avrebbero tentato in ogni modo (come in effetti fecero) di rimpiazzarlo con un altro successore di maggior gradimento. Se, al contrario, avesse mostrato una sempre maggiore deferenza e rispetto nei confronti di Franco, sarebbe apparso sospetto a chi vedeva in lui il germe di un cambiamento futuro. Adesso ha una sola strada, diventare il più discreto possibile, ma anche questo non basta, in Spagna come all’estero è considerato solo una creatura del dittatore e quando si parla di lui si dice invariabilmente: “è un debole”. In quegli anni Juan Carlos, oltre a recitare la parte del ragazzo poco sveglio, ha una serie di altri e ben più gravi problemi da risolvere: ha bisogno di addolcire le dichiarazioni di un padre infuriato, evitare di deludere e dispiacere l’inquilino del Pardo (Franco) e i suoi fedelissimi, attirare le componenti più giovani e riformiste del regime, allacciare rapporti segreti con l’opposizione in esilio e nello stesso tempo con molta riservatezza e discrezione informare gli uomini politici stranieri che alla morte di Franco la Spagna sarebbe diventata in qualche modo una democrazia.
Il principe, inoltre, continua a non avere nessun ruolo ufficiale: marito e padre di famiglia, vive, in questo periodo, una situazione paradossale per un uomo adulto: non sa cosa fare di sé stesso. Il Caudillo tiene accuratamente il suo successore lontano dagli affari dello Stato, nel 1970 lo invita agli incontri con i ministri, ma non sempre, nonostante il principe cerchi di ricordarglielo. Qualche telefonata occasionale completa il quadro. E’ lo stesso Franco a suggerirgli, forse per toglierselo di torno, di viaggiare: “Altezza, si faccia conoscere dagli spagnoli e dal mondo”. Juan Carlos prende il consiglio alla lettera e insieme a Sofia percorre in lungo e in largo la Spagna per scoprire il vero volto del suo paese. Prima però il futuro re passa diversi mesi in ogni ministero per approfondire la conoscenza degli ingranaggi burocratici che regolano la vita del suo paese.
I contatti con i principali paesi della neonata unione europea sono un altro degli obiettivi di Juan Carlos, intenzionato ad aprire alla Spagna la strada di una possibile futura integrazione, che faccia finalmente uscire il paese dall’isolamento nel quale si è chiuso dalla fine della guerra civile. Nel 1970 e nel 1973, Juan Carlos e Sofia vengono ricevuti in forma ufficiale dal presidente Pompidou, nel 1972 è la Repubblica Federale di Germania ad accogliere il principe. Il presidente Gustav Heinemann, un socialdemocratico della vecchia scuola, inizialmente molto riluttante all’idea di incontrare una persona che riteneva essere la marionetta di un dittatore, riferisce successivamente ad un giornalista di non essere mai stato così colpito da un visitatore straniero. Infatti la visita viene ripetuta nel 1974. Il governo britannico, invece, è abbastanza restio ad avere rapporti con il successore di Franco, visto anche il problema, sempre irrisolto, di Gibilterra. E benché l’atteggiamento del primo ministro Edward Heath nei confronti della Spagna, negli anni 1970-74, sia molto più accomodante di quello del suo predecessore, egli non può in alcun modo fare gesti significativi nei confronti del futuro monarca. La regina Elisabetta rende meno aspra la delusione politica, invitando Juan Carlos e Sofia a tutte le cerimonie familiari. Queste visite permettono al principe di Spagna di consolidare la sua amicizia con Lord Louis Montbatten, che diventa uno dei suoi più fedeli alleati. Lord Mountbatten non solo farà in modo che Juan Carlos sia ricevuto in forma privata da molti capi di governo, già prima della morte di Franco, ma, giocherà anche il ruolo di mediatore e pacificatore fra il giovane principe ed il suo sempre più amareggiato padre.
Per conto di Juan Carlos, Mountbatten porta a termine due delicate missioni diplomatiche, la prima nel 1969 presso don Juan al quale chiede di rinunciare al trono o quanto meno di firmare una carta da tenere segreta fino alla notte precedente la proclamazione del nuovo re, in modo che tutto il mondo possa vedere e capire che il principe è un sovrano legittimo e non una marionetta nelle mani del dittatore. Nello stesso periodo il principe di Spagna è quanto mai ansioso di conquistare la stima degli Stati Uniti e ancora una volta Mountbatten offre il suo aiuto; nell’autunno del 1970 Richard Nixon reduce da un viaggio a Madrid e da un breve colloquio con l’erede designato, incontra a Washington Mountbatten, il quale ovviamente gli parla del suo protetto, con buoni risultati: Juan Carlos e Sofia vengono invitati ufficialmente negli USA nel gennaio 1971. Durante questa visita il principe si lascia sfuggire un’affermazione allora colta da pochi, “devo lasciare aperte molte strade perché credo che la Costituzione spagnola permetta tutte le evoluzioni possibili”.
Nel marzo 1974 il principe e la principessa effettuano un viaggio ufficiale in Estremo Oriente, la più lunga missione ufficiale di questi anni di attesa. In India, nelle Filippine e in Arabia Saudita Juan Carlos viene ricevuto con gli onori e le attenzioni dovute ad un futuro capo di Stato. Anche la Francia compie i primi passi e nel gennaio 1975 il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing invita la coppia al castello di Chambord per una grande battuta di caccia. Altri governi, tra cui quelli del Benelux e dei paesi scandinavi (nel 1976 Juan Carlos non sarà invitato al matrimonio del re di Svezia Carlo XVI Gustavo con Silvia Sommerlath, perché il paese non vuole avere nulla a che fare con l’erede di Franco), rifiutano di fare alcuna differenza tra Franco e il suo successore, ma, come nel caso della Gran Bretagna, egli riesce a superare questa ostilità ufficiale grazie ai rapporti di parentela e amicizia con alcuni capi di Stato, ad esempio Baldovino del Belgio, il quale ha sposato un’aristocratica spagnola.
Ma in Spagna la situazione è sempre più difficile: tra i monarchici, fedeli al pretendente legittimo, don Juan conte di Barcellona, il principe di Spagna viene visto come un usurpatore dei diritti del suo stesso padre.
Il 30 luglio 1974 i rappresentanti delle forze democratiche, dei partiti e dei sindacati in esilio, costituiscono a Parigi la Junta Democratica. L’insieme è piuttosto eterogeneo, ci sono Rafael Calvo Serer, membro eminente dell’Opus Dei, ex franchista convertito al donjuanismo, il pretendente carlista Carlo Hugo di Borbone-Parman, Enrique Tierno Galvàn per il partito socialista popolare, ma soprattutto c’è Santiago Carrillo, leader del Partito Comunista Spagnolo, il quale con la sua presenza dà un certo peso a questo insieme a priva vista lievemente folkloristico. Nel giugno 1975 il Partito Socialista di Felipe Gonzàles , alias “Isidoro”, fonda, insieme ai socialdemocratici e ad altri movimenti moderati anticomunisti e dissidenti dal PCE, la “Plataforma de convergienza”. L’una e l’altra formazione non sono radicalmente diverse. Junta e Plataforma vedono per il dopo-franchismo solo una “rottura democratica” più o meno brutale. Entrambe firmeranno degli accordi prima della morte del dittatore e si fonderanno nel marzo 1976 – la Platajunta – in una congiuntura molto diversa da quella che avevano inizialmente previsto: la “rottura dolce” guidata da Juan Carlos.
Anche gli uomini di punta del movimento monarchico in esilio non sono teneri con l’erede del franchismo. José Luis de Vilallonga, marchese di Castellevell, Grande di Spagna, portavoce della Junta Democratica in Francia, giornalista, scrittore ed esponente di prestigio dell’opposizione in esilio, afferma in quegli anni: “la monarchia potrebbe avere una possibilità con l’infante don Juan, il solo erede legittimo dell’ultimo Borbone regnante. E’ un uomo di una certa età, liberale e con una notevole esperienza della vita. Sposato ad una donna che mi sembra impermeabile ad ogni ambizione smisurata, credo che l’infante avrebbe la saggezza di regnare senza governare…don Juan Carlos accettando la nomina di Franco ha tradito suo padre. Inoltre ha detto pubblicamente delle cose ‘enormi’ soprattutto se vengono da un futuro re, tra le altre: ‘sarò il continuatore fedele dell’opera intrapresa dal generale Franco’ e davanti alle Cortès ‘se diverrò re di Spagna non lo dovrò al mio sangue ma all’uomo che ammiro di più al mondo, il generale Franco’. In più Juan Carlos ha accettato questo ridicolo titolo di principe di Spagna che il generale gli ha gettato come un osso da rosicchiare”.
Quando Josè Luis de Vilallonga si reca per la prima volta dal re, su invito dello stesso sovrano, l’unica cosa che riesce a dire è: “maestà, sono venuto a chiedere l’aman, il perdono”. E a Juan Carlos che stupito gli chiede il perché di questa domanda di “grazia”, don Josè Luis risponde facendo l’elenco di tutto quello che ha detto e scritto per gettare il discredito e il ridicolo sull’allora principe di Spagna. Il re però lo interrompe: “devi sapere Josè Luis che ho sempre nutrito il massimo rispetto per chi è rimasto fedele a mio padre fino all’ultimo minuto”.
Il principe viene considerato, più o meno apertamente un personaggio di poco spessore, un debole succube degli uomini forti del regime. Vilallonga non è tenero quando lo definisce “Juan Carlos il Breve”, non certo in riferimento alla sua statura, al contrario assai notevole, ma pensando alla durata del suo regno. Oggi possiamo osservare che il re di Spagna è stato un ottimo attore, anche se, come egli stesso ha dichiarato: “non è sempre facile la parte dell’idiota”. Soprattutto non è semplice apparire stupido e nello stesso tempo cercare segretamente di convincere delle proprie buone intenzioni e aspirazioni democratiche i futuri uomini chiave in Spagna e, in più, i governi stranieri.
Questa è anche l’epoca in cui la famiglia Franco trama apertamente contro Juan Carlos, soprattutto intorno al 1972, dopo le nozze di Maria del Carmen Martinez Bordiu, nipote prediletta del Caudillo, con Alfonso di Borbone, cugino di Juan Carlos e figlio di quel Jaime duca di Segovia che negli anni ‘30 aveva rinunciato a tutti i suoi diritti al trono per poi tornare, in maniera confusa e contraddittoria, sulle sue decisioni. Smisuratamente ambiziosi, i parenti del generalissimo cercheranno in ogni modo di convincere il vecchio generale a modificare la legge di successione.
All’inizio degli anni ‘70, Juan Carlos, forte, se non altro di una designazione ufficiale, inizia a prendere contatti segreti e discreti con quasi tutti gli esponenti dell’opposizione. Tramite di questi incontri non sono gli uomini che costituiscono la cerchia del principe – il marchese di Mondèjar, Alfonso Armada e altri – ma soprattutto due amici molto intraprendenti: Jacobo Cano (prematuramente scomparso in uno strano incidente stradale) e Josè Joaquin Puig de la Bellacasa. All’uno e all’altro capita di condurre alla Zarzuela in incognito visitatori nascosti anche nel cofano dell’auto. E’ Puig de la Bellacasa a mettere in contatto il principe con il leader dell’opposizione catalana, Jordi Pujol, futuro presidente della Generalitat.
Fra gli intimi del futuro re c’è anche il nipote del Caudillo, Nicolàs Franco del Pobil, un uomo dalle tendenze liberali, che, secondo lo storico Philipe Nourry, ebbe un importante ruolo di intermediario, soprattutto per quello che riguarda i contatti con uno degli esiliati più celebri, Santiago Carrillo, incontrato – per conto del principe – in un famoso ristorante parigino, e sondato sulla posizione del PCE a proposito di un futuro avvento al trono di Juan Carlos.
Il leader dei comunisti spagnoli aveva già fatto sapere al conte di Barcellona che il PCE avrebbe appoggiato un governo provvisorio sotto la sua reggenza, quindi all’inviato di Juan Carlos, dichiara senza esitazioni che secondo lui il principe sarà soltanto un perpetuatore del regime franchista, screditato per di più agli occhi degli spagnoli e dei monarchici per il “tradimento” verso il padre. L’incontro di Parigi non ha portato i frutti sperati quindi Juan Carlos raddoppia gli sforzi e i tentativi per entrare in contatto diretto con il capo dei comunisti spagnoli, personaggio chiave per il futuro della democrazia. Nella sua biografia-intervista al re, Josè Luis de Vilallonga chiede conferma di questo episodio, ma il sovrano assicura di non essere mai stato a conoscenza del tête à tête parigino e racconta come, nell’ottobre 1975, era riuscito a inviare un messaggio a Carrillo. “Del Partito Comunista Spagnolo nessuno sapeva gran che. Quanti militanti aveva? Quale era veramente la sua forza? Che cosa avrebbero fatto i dirigenti comunisti alla morte di Franco? Quale sarebbe stato il loro atteggiamento di fronte alla monarchia?…Dovevo sapere il più possibile sui comunisti e sulle loro intenzioni rispetto a un futuro che – considerato lo stato di saluto del generale – mi sembrava sempre più vicino. Sapevo che mio padre aveva incontrato Santiago Carrillo a Parigi, trovandolo notevolmente intelligente; ma non potevo chiedergli di vederlo di nuovo per sondarlo a mio nome. Era una partita pericolosa che volevo giocare da solo senza compromettere in caso di indiscrezioni, l’immagine del conte di Barcellona…Il mio problema era come prendere contatto con Carrillo tramite una terza persona. Ma chi? Poi mi sono ricordato che in occasione delle cerimonie commemorative di Persepoli organizzate dallo scià dell’Iran, avevo conosciuto il presidente rumeno Ceausescu, un megalomane completamente pazzo, che però mi aveva detto di conoscere bene Carrillo il quale abitualmente trascorreva le vacanze in Romania. A questo punto dovevo solo mandare a Bucarest un amico fidato con un messaggio da trasmettere a Santiago Carrillo. Il mio intermediario ha passato qualche brutto momento, grazie alla polizia rumena, ma alla fine è stato ricevuto dal presidente al quale ha detto pressappoco questo: ‘don Juan Carlos di Borbone, futuro re di Spagna, vuol far sapere a Carrillo che ha l’intenzione al momento dell’ascesa al trono di riconoscere tutti i partiti politici, tra cui il PCE e gli chiede di avere fiducia’. Un mese o due prima che fossi nominato capo dello Stato, un ministro rumeno arriva in incognito in Spagna e mi comunica la risposta di Ceausescu: ‘Carrillo non muoverà un dito finché lei non sarà re. In seguito occorrerà concordare un arco di tempo non troppo lungo, entro il quale rendere effettiva la sua promessa di legalizzazione’. Respirai di sollievo, Carrillo non avrebbe fatto scendere in piazza i suoi, potevamo lavorare con calma. Il 22 novembre 1975 divenni re di Spagna, ma per parlare della legalizzazione del PCE si dovettero attendere le dimissioni di Arias Navarro e la nomina di Adolfo Suàrez a capo del nuovo governo”.
Il messaggero segreto per questa missione così difficile e dagli imprevedibili sviluppi fu quasi certamente Manuel de Prado y Colòn de Carvajal, amico, uomo di fiducia e ambasciatore ufficioso del futuro re; c’è però un disaccordo sulle date, visto che Carrillo in un suo libro di memorie riferisce di avere ricevuto il messaggio del sovrano solo nella primavera del 1976 e non prima dell’ascesa al trono come afferma, invece, Juan Carlos.
Intanto il regime, guidato da un uomo malato e stanco, vive i suoi ultimi tragici anni: il 20 dicembre 1973 uno dei fedelissimi del Caudillo, il capo del governo, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco viene assassinato dall’ETA con un attentato tanto spettacolare quanto strano. Il 20 dicembre 1973, la Dodge nera dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco salta in aria su una mina di straordinaria potenza. L’auto viene scagliata in alto con enorme violenza e ricade nel cortile interno di un convento di gesuiti. L’ETA rivendica subito l’attentato, e senza dubbio i baschi furono il braccio esecutore, ma chi c’era dietro? I preparativi per questo strano attentato cominciano nel dicembre 1972, quando i primi terroristi del commando basco Txiquia, arrivano a Madrid per sorvegliare i movimenti dell’Ogre, l’Orco, come veniva chiamato Carrero Blanco. “Nel corso di quell’anno il commando – racconta Josè Luis de Vilallonga - cambiò più volte domicilio, in un’epoca in cui non era permesso farlo senza preavvisare il commissariato di quartiere. Al momento opportuno un sedicente scultore affittò uno studio fornito di sotterraneo nella via Claudio Coello, strada di passaggio quotidiano della macchina dell’ammiraglio. La professione dell’affittuario giustificherà i colpi di martello e di piccone del commando che sta scavando una galleria di una decina di metri, che successivamente sarà imbottita di esplosivo. Fra il 19 e il 20 dicembre due terroristi travestiti da elettricisti svolgono, sotto gli occhi di tutti, i duecento metri di cavo, che avrebbe fatto esplodere la carica nella cantina dello scultore. Tutto questo a due passi dall’ambasciata USA. Dopo aver compiuto la loro opera i membri del commando si dirigono in macchina verso il Portogallo. Nessun controllo sulle strade, nessun dispositivo di allarme al confine”. Come mai nessuno si è accorto di nulla o piuttosto chi aveva deciso di lasciar fare? Perché mai il commando invece di rapire Carrero Blanco o di ucciderlo prima, durante o dopo la messa cui assisteva puntualmente alle 9 di ogni mattino, sceglie una forma così sofisticata di attentato? Ad ogni modo Carlos Arias Navarro, ministro dell’Interno e responsabile diretto della sicurezza dell’ammiraglio, invece di essere destituito, viene nominato, poco dopo, Capo del Governo. Quando Josè Luis de Vilallonga – ancora esiliato in Francia – decide di scrivere un libro sull’Operazione Orco, il Ministero dell’Interno francese provvede a informarlo che è il caso di abbandonare un progetto del genere, pena l’espulsione dal paese. Lo scrittore capisce e lascia perdere perché, riflette: “Parigi valeva bene una messa”.
Solo con la scomparsa del più franchista dei franchisti, Juan Carlos comincia a pensare che forse, dopo la morte del dittatore, le cose potranno cambiare e anche in fretta. Se Carrero Blanco fosse rimasto in vita il giovane re avrebbe potuto smantellare con altrettanta rapidità le fondamenta stesse del regime? “Carrero non sarebbe stato affatto d’accordo – ha riconosciuto il sovrano – ma non credo che si sarebbe opposto alla volontà del re. Si sarebbe semplicemente dimesso”.
Il 9 luglio 1974 Franco viene ricoverato in un ospedale madrileno per una grave flebite alla gamba destra. A titolo provvisorio Juan Carlos è investito dei poteri di capo dello Stato, ma la guarigione rapida del Caudillo lo rispedisce nell’ombra dopo 45 giorni di luogotenenza.
Nel giugno 1975 don Juan dichiara che pur ritenendo la monarchia come garante dei diritti dell’uomo e delle sue libertà, l’iniziativa della restaurazione deve essere presa dagli spagnoli, quando avrebbero avuto la possibilità di esprimersi liberamente. “La monarchia – dice don Juan – è uno strumento di concordia tra gli spagnoli e un veicolo naturale della nostra piena integrazione nella Comunità Europea”. Alcuni giorni dopo al conte di Barcellona viene formalmente interdetto l’accesso nel territorio spagnolo. Ormai però il franchismo ha i giorni contati anche se il Generalissimo cerca di dimostrare il contrario con un atto che ancora una volta isola la Spagna dal resto del mondo. Nel settembre 1975 due militanti dell’Eta e tre del Frap (Frente Revolucionario Antifascista y Patriotico) vengono passati per le armi a Madrid, Barcellona e Burgos; la loro esecuzione è decisa personalmente da Franco, senza che nessun ministro abbia il coraggio di opporsi formalmente. Le ripercussioni internazionali sono considerevoli. Ovunque in Europa le ambasciate spagnole vengono prese d’assalto e una dozzina di paesi richiamano immediatamente i loro ambasciatori. Juan Carlos interviene personalmente per chiedere la grazia, ma non viene ascoltato. Un atteggiamento implacabile quello del dittatore, per affermare la sua autorità assoluta e la forza del regime.
Il 1° ottobre Franco compare in pubblico per l’ultima volta al balcone del palazzo reale. Quando la folla comincia a cantare Cara al Sol (Faccia al sole), l’inno della Falange, tutti alzano il braccio destro nel saluto romano; tutti, compreso il cardinale primate di Toledo, tutti tranne uno, l’erede designato che rimane immobile con il volto scuro e imbronciato. Il 14 ottobre seguente il Caudillo è colpito da un malore, ma il suo stato di salute viene tenuto segreto e il governo privo di un capo non sa più cosa fare. Il 16 ottobre esplode frattanto la questione del Sahara spagnolo.
Il conflitto tra Marocco e Spagna, a proposito del Sahara occidentale si era aggravato in quegli ultimi mesi. Una sentenza della corte internazionale dell’Aya raccomandava l’autodeterminazione delle popolazioni sotto il controllo spagnolo, mentre il governo madrileno era diviso tra due lobby, una favorevole ad una soluzione all’algerina, l’altra più propensa ad una intesa con Rabat sotto l’egida di Kissinger. L’armata spagnola del Sahara, comandata dal generale Gomez de Salàzar, un uomo energico e ponderato – anni dopo sarà chiamato a presiedere il processo ai militari del Golpe – aveva compreso la necessità di una rapida decolonizzazione. Ma in ogni caso la ritirata doveva essere fatta con dignità. Re Hassan II – quasi certamente all’oscuro delle reali condizioni di Franco, ma cosciente del fatto che è venuto il momento di forzare la mano per recuperare il Sahara – minaccia di invadere il territorio occupato dall’esercito spagnolo alla testa di 300 000 civili, tra cui donne e bambini armati solo delle bandiere del Marocco. E’ l’Operazione Marcia Verde. In un momento così drammatico l’erede designato, con una fermezza che i franchisti non gli conoscevano, pone le sue condizioni: accetterà nuovamente la luogotenenza dello Stato, ma solo nel momento in cui i medici dichiareranno che la malattia di Franco è irreversibile, “perché non sono un jolly di cui ci si può servire quando c’è bisogno”. Una volta ottenuti i pieni poteri, Juan Carlos prende in mano la questione marocchina: “La tensione fra Rabat e Madrid – ricorda il re – veniva da lontano, in tutto il mondo erano ormai maturi i tempi per la decolonizzazione, ma qui non si sapeva bene come procedere. In quel momento, con Franco moribondo, il governo era spaesato, il comando delle forze armate spagnole nel Sahara era lasciato a se stesso, quindi decisi di andare personalmente laggiù”.
A El Aaiùn Juan Carlos, nella sua veste di Capo Supremo delle Forze Armate, porta alle truppe il suo sostegno morale, si assicura della loro disciplina e informa il comandante, generale Gómez de Salàzar che gli spagnoli dovranno ritirarsi dal Sahara con ordine e dignità evitando soprattutto scontri alla frontiera: “non perché siamo stati vinti, ma perché l’esercito non può sparare su una folla inerme”. Il re del Marocco poche ore dopo sospende la Marcia Verde e chiede al principe di Spagna di “negoziare con serenità”, tre giorni dopo, a Madrid, iniziano le trattative per la restituzione del Sahara spagnolo. “Gli arabi amano i bei gesti – ha osservato in seguito il re - e per loro il più bello è quello del capo che si mette davanti alle sue truppe”. Cosa sarebbe successo se il Caudillo fosse stato ancora in grado di dare ordini? Sarebbe arretrato davanti a donne e bambini?
L’agonia di Franco dura più di un mese. Ad un attacco cardiaco il 15 ottobre seguono un’emorragia gastrica e il 26 ottobre una devastante emorragia interna. Nella notte fra il 2 e il 3 novembre l’emorragia intestinale si aggrava. Il letto, il tappeto e il muro si inzuppano di sangue, per fermarla i 24 specialisti capeggiati dallo stesso genere di Franco, il marchese di Villaverde, che seguono il decorso della malattia decidono di intervenire d’urgenza nella infermeria del Pardo. All’operazione segue la scoperta che il Caudillo soffre di uremia ed è necessario quindi sottoporlo a dialisi. Il 5 novembre viene di nuovo operato in un ospedale adeguatamente attrezzato, gli vengono asportati due terzi dello stomaco e da quel momento la sua vita dipende da tutta una serie di macchinari. Nei rari momenti in cui è cosciente il Caudillo mormora: “quanto è duro morire”. Il 15 novembre si verifica un’altra emorragia più forte delle precedenti, lo stomaco di Franco si gonfia a causa della peritonite e nelle prime ore del mattino ha inizio un altro intervento chirurgico. Alla fine è la figlia Carmen ad insistere perché al padre vengano risparmiate ulteriori sofferenze. Franco muore alle 5.25 del 20 novembre 1975, il referto medico parla di shock eudotossico dovuto a peritonite acuta batterica, blocco renale, broncopolmonite, arresto cardiaco, ulcere gastriche, tromboflebite e morbo di Parkinson. Juan Carlos è re per volontà del defunto dittatore. I – segue