Juan, figlio di Juan Pedro, nacque a Los Prietos, una proprietà di La Roda. Suoi genitori furono Juan Pedro e Antonia Maria. Juan Pedro era il fattore di Los Prietos. Los Prietos appartenevano a un agrario molto ricco che abitava a Madrid. Dove nacque Juan la pianura si estende immensa e monotona; la terra ha il colore dell’ocra. Di fianco alla casa si vede qualche vecchio olmo, senza cinguettio di uccelli. Non ci sono uccelli in tutta la pianura. Colombe grigie compiono giri lenti, molto lenti, sul cielo azzurro, sempre sereno: a volte calano sui solchi; al crepuscolo tornano al colombaio. Quando Juanico aveva cinque o sei anni, un giorno che era stato messo su un banco di pietra, mentre la madre era fuori, un porco entrò in casa, si avvicinò al bambino, cominciò a morderlo e a rodergli un braccio. Alle sue grida accorse la madre. Juan restò per tutta la vita con il braccio piagato. Due anni più tardi Antonia Maria morì. Juan si risposò con una vedova che aveva due figli. La matrigna amava poco Juanico. Lo nutriva a mala pena, lo batteva a sangue e lo chiudeva per lunghe ore nel cesso. Fu allora che Juan Pedro cominciò a bere. I lavori di casa venivano completamente trascurati. Il padrone, che viveva a Madrid , si rovinò. Los Prietos passarono ad un altro proprietario. Il nuovo padrone licenziò Juan Pedro. Juan Pedro andò a vivere nel villaggio; lavorava poco; dopo un anno morì e Juanico restò con la matrigna e i due figli di lei. A otto anni Juanico non dava segno di intelligenza, non lo mandavano a scuola; non imparava né a leggere né a scrivere. Quel bambino è davvero stupido, dicevano tutti; oppure: Dio mio, che bestia! Juan riceveva più botte di prima e mangiava ancora meno. Era alto, magro, bruno, brutto, ma aveva dei grandi occhi, degli occhi melanconici, luminosi. A dodici anni andò a lavorare in una fattoria: era incaricato di portare il pasto ai braccianti che lavoravano lontano. Faceva i lavori più pesanti, sopportava gli scherzi più brutali e più feroci dei servi. Una notte di S.Giovanni, per divertimento, lo misero a rimbalzare per aria, in una coperta. Cadde a terra e si ruppe una gambe. Giacque per due mesi in scuderia, su un mucchio di paglia, per curarsi la frattura. Appena stette un po’ meglio, e poteva già muoversi avanti e indietro, occupandosi dei lavori della casa, nella fattoria fu compiuto un furto; sparì qualche moneta dalla cassa dell’amministratore. Juanico era all’oscuro del furto, ma fu portato egualmente in città e lo tennero per tre mesi in prigione. La moglie del guardiano ebbe compassione di lui; il prigioniero non dava nessun fastidio, non parlava, non si lamentava. Quando i due figli del guardiano caddero malati di varicella, Juanico che ispirava fiducia a tutti, andava e veniva nella casa del carceriere e sbrigava le faccende. Durante la malattia dei bambini non lasciò un attimo il loro letto. Li curava, dava loro le medicine, li vegliava tutta la notte, senza dormire sempre accanto a loro. Quando fu rimesso in libertà, Juanico non sapeva che fare. Cercò lavoro, andò a servizio in una casa di Villaroblo e restò sei anni a coltivare la terra. Siccome il raccolto era cattivo il proprietario della fattoria ridusse il personale. Juanico, che non aveva né moglie né figli fu il primo a venir licenziato. Per qualche settimana vagò per i sentieri, dormendo vicino ai villaggi e cibandosi delle croste di pane che gli venivano date in elemosina. Un giorno incontrò per strada un gruppo di bifolchi che si recavano ad un porto di mare. Gli dissero di andare con loro, e si mise a camminare in loro compagnia. Restò due anni fuori della Spagna, in America. Quando ritornò nella Mancia tutto era rimasto come prima. Anche Juanico era lo stesso di prima. Non aveva più nessuno al mondo e non possedeva nulla. Cercò lavoro in qualche fattoria e coltivò la terra. Un bracciante e la moglie lo alloggiavano nella loro casa; Juanico li pagava con quello che guadagnava. Nel 1885 in Spagna si diffuse il colera. Juan allora stava a Criptana: le famiglie più agiate se ne andarono. I lavori dei campi furono sospesi o ridotti all’indispensabile. Juanico rimase disoccupato. A Criptana entrava nella casa dei colerosi; aiutava i medici, si coricava nei letti dei malati perché facessero una reazione. Uno dei medici ebbe pietà di lui e gli dette lavoro. Juan, figlio di Juan Pedro aveva allora quasi quarant’anni, ma era sempre magro e pallido come adolescente. Si levava alle quattro del mattino, faceva uscire i buoi dalla stalla, attaccava le mule e partiva con loro per le terre che doveva dissodare. Passava tutta la giornata, dalla mattina alla sera, nella pianura sconfinata scavando dei solchi simmetrici, molto lunghi, paralleli. Le gazze compivano dei brevi voli nel cielo azzurro, altre coppie di buoi camminavano lente, molto lente, laggiù in fondo. Al crepuscolo, quando il sole era già calato da qualche attimo, Juanico ritornava alla fattoria. Mangiava con gli altri braccianti e andava a dormire. Dopo aver vissuto per sette anni nella proprietà del medico, quando il proprietario morì e le terre furono divise fra gli eredi, Juanico rimase di nuovo senza lavoro. Più pallido e magro di sempre, non aveva forze, e di tanto in tanto soffriva di svenimenti. Non sapendo che fare né dove andare, si mise a percorrere i sentieri della pianura. I piccoli uccelli del cielo e i cani randagi gli facevano compagnia. Portava un sacco da pastore sulle spalle e vi conservava le croste di pare che gli davano. Un cane randagio e estenuato, con gli occhi lucidi, si unì a lui e non lo lasciò più nel suo vagabondaggio. Juanico gli si affezionò, e mangiavano assieme il pane che raccoglievano di porta in porta. Un giorno d’inverno gli venne in mente di andare a vedere se la casa era rimasta come prima. Arrivò a Los Prietos mentre calava una notte molto fredda e aveva nevicato. Juanico parlò un momento col fattore e gli domandò riparo. Gli indicarono una tettoia dove si teneva il concime. Juanico si coricò nel concime. La mattina dopo fu trovato morto; vicino a lui, seduto sulle due zampe, la testa rivolta al cielo, il piccolo cane urlava. -Azorin- novella.
TORNA
Torna sovente e prendimi,
palpito amato, allora torna e prendimi,
che si ridesta viva la memoria
del corpo, e antiche brame trascorrono nel sangue,
allora che le labbra ricordano, e le carni,
e nelle mani un senso tattile si riaccende.
Torna sovente e prendimi, la notte,
allora che le labbra ricordano, e le carni…
-Costantino Kavafis-