A proposito di Juan Muñoz e Hangar Bicocca, (Milano)
Juan Muñoz:
“ Lo spazio è là, dato. Poi viene il mio linguaggio, la mia esperienza che è altra cosa. Questi sono i punti di partenza. Non penso che qualcuno possa
veramente dar forma a un lavoro a prescindere. Bisogna venire, guardare, disperarsi e sorridere”.
All’Hangar Bicocca lo spazio creato da Muñoz come nel suo precedente allestimento alla Tate non è elemento architettonico dato a priori ma veramente
l’oggetto d’un esperienza percettiva inedita dove lo spettatore è chiamato in primo luogo a rendersi partecipe insieme all’artista: guardare l’oggetto è
anche un vedere sé stessi nel vuoto d’un piano, d’un corridoio o d’un ascensore tra i tre livelli di scorrimento dal sottosuolo al sopraelevato. Se si
tratta di avere un’immagine per cominciare e costruire a partire da quella una scultura o un’installazione, fondamentale resta per Muñoz rispetto al suo
lavoro anche e soprattutto vedere gli spettatori muoversi nello spazio, circolare e essere soggetti a meccanismi di percezione destabilizzante perché non
sia per loro solo un’osservazione ma veramente l’esperienza di un attraversamento. Si tratta di “attraversare la città” piuttosto che di “entrare in un
museo” secondo Muñoz, camminando su pavimenti ottici e geometrici o attraverso installazioni che investono la verticalità estrema dell’Hangar quanto il suo
volersi vuoto, anonimo, apparentemente ostile o estraneo allo spettatore per lasciarlo alla propria esperienza percettiva estraniante .
“La mia prima idea o immagine se si vuole era di costruire due ponti successivi, due ponti tendenti all’orizzonte che scomparivano nella distanza. Questa è stata la prima idea: stare su un ponte e guardare a qualcosa, un ponte dal nulla al nulla. La seconda idea era di sospendere un numero indefinito di persone nello spazio”.
“Waste Land”
Il pavimento si compone di pattern geometrici colorati, di elementi modulari del nero, del giallo e del grigio; scivola sotto i nostri piedi, si protrae,
tende oltre i nostri occhi a un infinito ottico e modulare, a una griglia visiva che appare, anche, come una gabbia geometrica e illusoria. Ci fa perdere
la nozione spazio-temporale dei limiti, trascende lo spazio fisico come un piano aperto, una distesa galattica, come una serie di diagonali in combinazione
infinita di gialli e di neri intermittenti ai grigi in diluizione. E’ terra “desolata” dalla poesia di Eliot cui si ispira perché immersa in una sorta di
estraneità e vuoto percettivo. Spazio aperto dove lo sguardo corre senza potersi arrestare su alcun segno di presenza, sullo sfondo di strutture oscuranti
in tubi e metallo. Il pupazzo d’un piccolo ventriloquo è là testimone a lato, dall’altro lato un suo simile, seduto con i piedi che penzolano da una
mensola di metallo sospeso nel vuoto. Lo sguardo scivola, corre all’infinito come questa luce verso un punto di fuga lontano, nell’oltre, poi tende a
parcellizzarsi in una molteplicità di punti di vista secondo le diagonali scelte. I due testimoni muti e sprovvisti come questi pupazzi di ventriloquo d’un
reale interlocutore, in attesa di parole o che la voce o le parole di qualcun altro giungano a loro restano muti, in metallica sospensione ma
potenzialmente investiti della capacità di raccontare , di farsi tramite e incarnare un’altra lingua, altri corpi, altre parole.
“Hanging Figures”
Guardare, essere guardati, guardare sé stessi, la verticalità mette in scena questo gioco dello sguardo.
Fare i conti con la verticalità dello spazio espositivo diventa una scelta simbolica oltre che formale, implica una distorsione profonda dello sguardo
costretto verso l’alto, fatto sollevare dal suolo al soffitto oppure della figura intera appesa, spesso comparendo come attaccata dall’alto a un filo
metallico e lasciata penzolare. Il corpo è contratto, sollevato a massa, i piedi sono fatti precipitare nel vuoto, una liana uncinata lo serra dal centro
della bocca. Qualche volta gli appesi appaiono senza testa ciondolanti sull’ambiente circostante mentre un osservatore allungato al suolo li osserva, la
testa volta verso l’alto con ghigno sinistro. Manichini umani e metallici ruotano su loro stessi nella violenza implicita del gesto, nella sospensione
angosciante del loro guardare e vedersi guardarti in tale estraneità di prototipi semi-umani, equilibristi sul filo teso della vita tendendo verso una
qualche verticalità lassù oltre il soffitto, oltre il nero della parete di fondo e il grigiore circostante. Qualche volta appaiono come manichini
decapitati _ con la testa amputata_ dunque nell’impossibilità anche volendo di guardare oltre, di ascendere volgendo verso l’alto mentre l’atto tagliente,
ironico e auto-derisorio di tale posizionamento è enfatizzato da una figura al suolo che osserva la scena con una risata sinistra.
“Conversation Piece”
Un gruppo di figure in resina e poliestere. La parte inferiore dei loro corpi è appesantita da involucri che ricordano sacchi di sabbia. Le figure in una
serie di pose statiche, congelate nello spazio, appaiono volutamente più piccole del normale; una tacita conversazione accade tra i due personaggi al
centro della scena. Un terzo si protrae verso di loro vistosamente trattenuto da un’altro che gli cinge la vita tenendola serrata a un cavo metallico. Due
figure al centro, una sfiora lievemente il volto dell’altra con una mano nel tentativo di parlargli, di comunicare o meglio di trasmettere a lui un qualche
misterioso segreto. Il volto coperto d’una mano, sembra volergli sussurrare qualcosa lì in quell’attimo arrestato nel tempo, in quell’ “immobile movimento”
d’un forte impatto emotivo. Il toccare al volto dell’altro emerge in primo piano mentre lo sguardo è cieco, nel’impossibilità di vedere, di entrare in
contatto con lui o con noi spettatori in parte per questo velo o tela di pietra oscurante che come una patina di grigio-sabbia si sovrappone all’ultimo
strato della scultura. Le figure appaiono più piccole rispetto alle loro reali dimensioni; quali prototipi dell’umano volutamente non devono coesistere
nello spazio degli spettatori. Qualcosa tende a isolarli, renderli estranei, lo sguardo introspettivo volto verso l’interno. I loro corpi ugualmente sono
ancorati al suolo, zavorrati a terra da sacchi pesanti scolpiti nella pietra. Le figure congelate nello spazio performativo che contribuiscono a creare
appaiono nell’immobilità di pose statiche , di istantanee fotografiche arrestate in qualche modo dal gesto della scultura: prototipi beckettiani di figure
dell’attesa,della perdita o dell’assurdo esistenziale, rimandano alla sua de-figurazione del soggetto preso nella trappola dell’ inconscio o del
linguaggio.
“The Nature of Visual Illusion”
Lo spazio tridimensionale d’una tenda grigia monocroma è evocato in effetto trompe-l’oeil dallo sfondo pittorico figurato. Lo spazio in realtà è illusorio,
fittizio, ricreato per l’effetto d’una pittura mentre tre figure dai lineamenti quasi identici appaiono assorte in discorsi a noi sconosciuti e una quarta
osserva a distanza, spia la scena a lato con ghigno beffardo. Spazio illusorio: quello che vedo come spettatrice è una messa in scena, un artificio visivo,
l’illusione ottica d’una realtà che se pur simulata dal gioco prospettico esiste nel momento in cui entro in quella “finzione” creata dalla messa in scena
trascendo lo spazio puramente fisico degli oggetti e delle figure. Accetto di prendere parte a quel patto in una “sospensione di giudizio” che è anche atto
di fede verso quello che sto sperimentando, vedendo o credendo di vedere nell’esperienza dell’opera. Quello spazio disorienta la mia percezione oggettiva,
chiara d’una presenza architettonica perché vuoto, privato d’ogni possibilità di comunicazione con lo spettatore e posto in una tensione emotiva tangibile,
appunto l’ambientazione lugubre, svuotata e il senso di estraniamento in cui le figure sono immerse, lasciate interagire. Questo tipo di spazi sono quelli
che troviamo nel lavoro di Muñoz, spazi architettonici mai completamente diurni o notturni e che pur apparendo svuotati, “denudati” in loro stessi là dove
la comunicazione appare in qualche modo impedita o rimossa con l’esterno, dunque spazi “fuori dal tempo”, incarnano tanto più una condizione esistenziale,
la quintessenza d’una sensibilità dell’attuale. Giustamente perché mancano di identità, perché sono così caricati tensivamente , sensibilmente ma allo
stesso tempo restano anonimi, sprovvisti d’una personalizzazione, giustamente interstiziali agli spazi di presenza. Come afferma Muñoz a proposito della
sua ultima installazione: “
Con questo lavoro ho costretto ogni immagine a essere un’immagine vuota. Gli ascensori non trasportano nessuno, le finestre non conducono da nessuna
parte”
. Implicano una discesa nella notte, il serrarsi di strade, di negozi, di saracinesche o tende, il momento della chiusura. Ogni cosa sembra essere sospesa,
tutte le figure hanno gli occhi strettamente chiusi all’esterno nell’impossibilità di vedere.
Dunque da una parte è l’inevitabile “trasparenza dell’illusione” citando Muñoz che si trova al centro del suo lavoro, un’illusione architettonica e visiva
ma anche performativa o di realtà quale condizione esistenziale che vuole essere costruita e insieme decostruita, messa in scena nel suo gioco performativo
ma anche messa a nudo. Dall’altra parte gli spazi sono o vogliono essere ricondotti a spazi vuoti, a immagini svuotate o destabilizzanti alla percezione,
domandando d’essere esperiti, sentiti più che tangibilmente visti o presentati agli spettatori. Si aprono in verticalità su differenti livelli, sono fatti
di ascensori, di varchi al suolo, di cunicoli sotterranei e botole che danno accesso a presunti sottosuoli come in “Double Binds”. Sono pavimenti ottici o
palcoscenici visivi dove strane figure, presenze destabilizzanti, prototipi umani si affacciano, pupazzi muti di ventriloqui in attesa di parole nella
“Waste Land” Muñoziana. Oppure, ancora possono essere figure in un circuito chiuso, in un meccanismo che si muove a ripetizione nello spazio come per le
ascensori ascendendo e discendendo senza sosta in un movimento immoto e continuo, girando su sé stesse per ritrovarsi costantemente nello stesso luogo.
In “Living in a shoebox”, due figure in miniature posizionate dentro un meccanismo che si muove senza sosta sulle rotaie di un modellino
giocattolo viaggiano perpetuamente sospese in uno spazio claustrofobico, prese dentro un moto di ripetizione continuo del circuito che è anche l’immobilità
apparente d’un corto-circuito eretto a sistema. Là nessuna possibilità di trasformazione esiste. Perché, come afferma l’artista, se da una parte
“l’immobilità della scultura figurativa resta per me un inspiegabile enigma”, dall’altra “la rappresentazione del movimento e del gesto dentro
quell’immobilità è una sfida perpetua e affascinante”. L’idea di scultura infine,in Muñoz, sembra posizionarsi veramente tra tali estremi di immobilità e
moto continuo, incapsulando il movimento come nelle ascensori ma in modo soffocante, mostrando situazioni in cui si è immobili e ancora ci si muove in
un’altra intensità emotiva. Là le figure presenti in un “immobile movimento”appaiono condannate all’immobilità dell’eterno ritorno, d’una ripetizione
immota e senza via d’uscita. (elisa castagnoli)