Magazine Cultura
Con questo romanzo molto premiato Julie Otsuka ha raggiunto la popolarità negli USA, mentre in Italia è comparso prima il bellissimo Venivamo tutte dal mare. Spero che Bollati Boringhieri mandi presto in libreria anche questo, con la stessa ottima traduzione di Silvia Pareschi. Se Venivamo tutte dal mare raccontava coralmente le vite di migliaia di donne giapponesi che dal principio del Novecento sono sbarcate in California per congiungersi con i mariti emigrati, sposati per procura, qui è narrata l'oscura e vergognosa storia dell'internamento dei cittadini statunitensi di origine giapponese dopo Pearl Harbor. Considerati indiscriminatamente potenziali traditori, informatori del nemico, più fedeli all'Imperatore che al governo dello zio Sam, furono allontanati dalle proprie case, privati di averi e libertà, raccolti in campi di concentramento dove trascorsero anni nell'inattività e nel disagio più totali. La famiglia protagonista vive dapprima il trauma di veder prelevato in piena notte il padre (portato via in vestaglia e ciabatte, particolare che tormenterà il figlio bambino per tutto il tempo della separazione) poi, quando per strada compaiono i manifesti in cui si avvisano gli americani di ascendenza giapponese che il giorno tale dovranno partire per una destinazione sconosciuta portando con sé solo una valigia di effetti personali, lo strappo violento della perdita di punti fermi, amici, abitudini, sicurezze. Né il ritorno sarà la facile e felice ripresa della propria vita: ciò che è perduto non si ritrova, essere assimilati ai nemici sconfitti crea disagio e vergogna, gli altri, quelli che sono rimasti, non hanno nessuna voglia di riaccogliere chi avevano già dimenticato. Anche se non raggiunge la commovente (e strabiliante) perfezione della voce corale di Venivamo tutte dal mare, Julie Otsuka è una scrittrice sicura e padrona dei suoi mezzi, capace di narrare una vicenda tanto densa con cristallina semplicità, obiettività e distacco, creando i personaggi attraverso piccoli tocchi e notazioni rivelatrici. Alternando i punti di vista dei quattro personaggi senza nome (e il più sconvolgente è quello del padre, l'unico che parla in prima persona, anche se forse è quello che convince di meno), senza mai cedere all'indignazione o all'empatia ostentata, ci fa partecipare con indignazione a un momento di storia poco conosciuto, di cui giustamente gli Stati Uniti non amano parlare perché non torna a onore di uno stato che della democrazia fa il proprio pilastro portante.
Un romanzo bello, severo e necessario.
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