di Cristiano Di Salvo
Dodici anni di sigarette mi hanno lentamente insegnato a conoscere quanto meno un aspetto della mia personalità. Con mio grande dispiacere devo ammettere di essere psicologicamente prono alla dipendenza, pur avendo uno stile di personalità prettamente evitante. Questa stramba posizione di scissione interiore, unitamente all’autocoscienza della stessa, mi ha sempre permesso di tenere le opportune distanze da situazioni di rischio elevato, come l’assumere droghe che creano dipendenza fisica (o forte dipendenza psichica) o il giocare d’azzardo. La mancanza di interesse e la disapprovazione verso questo tipo di condotte è per me una sorta di imposizione superegoica; in parole povere so che se cominciassi a tirare coca c’è una probabilità altissima che non riuscirei più a smettere, quindi mi sono convinto di non doverlo fare.
Per quanto sia a favore della liberalizzazione della cannabis e dell’hashish, sono comunque parecchio contento quando vengono arrestati i “simpatici” spacciatori tanto cari a noi palermitani, perché so che è gente che fa leva sull’escalation dalla cannabis all’eroina. Mi direte voi, in buona fede ed a ragione: “ma Cristiano, non è provato che fare uso di droghe leggere sia, come diceva quel famigerato leghista, l’anticamera per l’eroinomania, anzi…”. Sono pienamente d’accordo con voi, ma lo spacciatore no. Lo spacciatore (e la mafia che lo spalleggia) ragiona per escalation. Lo spacciatore, nella sua ignoranza, sa benissimo che non c’è sempre un rapporto causale, ma sa anche che alcuni soggetti possono essere spinti a consumare sempre più “roba”, di qualità progressivamente minore e spendendo sempre più denaro. Da questo deriva lo slang anglo/americano “pusher”, che porta con sé l’idea dello spingere attivamente qualcuno a drogarsi, in contrapposizione a “(drug) dealer”, più simile al nostrano termine “spacciatore”.
Ma queste cose le sapete già.
Quello che qualcuno di voi forse non sa è che lo stesso sistema è da qualche tempo la fonte del proprio “divertimento” quotidiano. Se vi fermaste un secondo a guardare con senso critico i “giochi” presenti su un qualsiasi app store o nelle centinaia di notifiche che ricevete via facebook, potreste notare che la maggior parte dei “videogames” più famosi adottano il cosiddetto sistema free-to-play. Per chi fosse fuori dal mondo informatico, per fato o per scelta, spiego che si tratta di un modello di mercato per cui un’applicazione video-ludica viene resa disponibile al pubblico “gratuitamente”.
Perché le virgolette? Perché si tratta di una gratuità assolutamente nominale. Sviluppare un videogioco costa, in termini di denaro, risorse umane e tempo. Per ammortizzare i costi di sviluppo e per guadagnare qualcosa il prodotto deve essere venduto.
Come mai allora Clash of Clans o Candy Crush o chi per loro si trovano gratis sugli store di tutti i cellulari? Beh, per lo stesso motivo per cui i pusher ti passano la prima dose gratis e possibilmente di buona qualità: per sviluppare una dipendenza.
Analizziamo i primi dieci minuti di Clash of Clans: Entri in gioco, la tua consigliera ti da il benvenuto e ti avverte dell’attacco dei goblin. “Costruisci un cannone per difenderti”, dice, e tu lo fai: 250 pezzi d’oro in meno su 750 di partenza. “Non essere tirchio, spendi una gemma per completarlo subito”, dice. Tu pensi: “tanto ne ho 500”. Nessuno ti dice che nei 60 secondi necessari a costruire il cannone i goblin non attaccheranno, quindi hai fretta di difenderti. E spendi una gemma. I goblin sono due e muoiono in cinque secondi. Non dai nessun ordine, non fai nulla, fa tutto il “gioco”, tu hai solo posizionato il cannone. “Grazie capo”, ti dice il tutorial, “chissà come avremmo fatto senza di te”. “Gli stregoni sono venuti ad aiutarci, attacchiamo il villaggio dei goblin”. Truppe gratis – intrigante – e parti all’attacco. Gli stregoni sono potentissimi. In cinque sterminano difese e villaggio. “Bravo, 100%, hai vinto, ottimo”: ricchi premi e cotillion. Torni al villaggio, altri complimenti, le truppe sono sparite pur essendo sopravvissute tutte all’attacco. “Costruisci un’altra capanna del muratore”. Apri il menù costruzione: 250 gemme. Devi farlo e lo fai. Velocizza la costruzione spendendo una gemma.
Da qui in poi il pattern comincia a ripetersi all’infinito. Potenziare le costruzioni costa un sacco di risorse, ma puoi sopperire con le gemme, alcune costruzioni possono essere comprate solo con le gemme, giocare in single player richiede uno scudo che costa gemme, etc, etc, etc, gemme, gemme, gemme. Però mi diverto, vi direte. Si? Vi divertite? Provate a chiedervelo. Meglio, provate a divertirvi senza spendere gemme. Impossibile, ci vuole troppo tempo per portare a termine qualsiasi azione e non avete nessun controllo diretto su nulla, tranne il posizionamento degli edifici e la disposizione iniziale delle truppe sul campo. Il resto lo fa il “gioco”. Esattamente come fanno le slot machine.
Illusione del controllo, la possiamo chiamare. In realtà tutto è programmato per farvi spendere più gemme possibile e, quindi, farvele comprare. Perché le gemme si pagano in soldi reali! 4,49 € per 500 gemme. Il “gioco” quindi è noioso e ripetitivo, ma avendo speso tempo, energie e soldi nel giocarlo si è portati a continuare a giocare, pena quella che in psicologia sociale viene definita “dissonanza cognitiva”, cioè quello stato di disagio in cui dobbiamo ammettere di agire incoerentemente con noi stessi.
Penso che, rendendosi conto di questo meccanismo, la condotta più appropriata nei confronti di questi pusher di serie C, che ci vendono il nulla in cambio di soldi reali, sia il non utilizzare le loro applicazioni da quattro soldi, create con la logica del pusher, non con quella del vero programmatore video-ludico (e sottolineo ludico, dal latino ludus, termine che implica il giocare, l’imparare ed il divertirsi al tempo stesso).
E forse è meglio farsi una sincera dose di mescalina, che magari potrebbe portarci a scoprire il nostro spirito guida, che comprare il nulla per doverci convincere che buttare via tempo e denaro sia divertente.