Magazine Cultura

Justine Ovvero la Filosofia del Marchese de Sade

Creato il 01 settembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Justine Ovvero la Filosofia del Marchese de SadeNon è poi così vero che gli epigoni siano sempre più radicali dei loro maestri. Ultimamente una mia amica mi raccontava che era rimasta sconvolta dal racconto “Il demonio”, di Charles Bukowski, contenuto nel celeberrimo “Compagno di sbronze”. Lasciandosi andare all’aggettivistica scarna che denota una labile facoltà critica me lo riassunse così: agghiacciante, violento, insostenibile e soprattutto sadico. Ah, quella parola! Così spesso usata, stravolta, da onnicomprendere una vastissima area semantica che a tutto si riferisce tranne che all’etimologia originaria del vocabolo. Ormai, in quest’epoca sessuomane e contemporaneamente sessuofoba, essa indica soltanto la relativa deviazione psicosessuale. E invece il termine a mio avviso più interessante, noto soltanto a isolati esteti di letteratura, il termine “sadiano”, è andato sommergendosi negli anfratti di saggi teoretici. Sadiano in riferimento alla filosofia di Donatien-Alphonse-François de Sade, noto come (epiteto affibbiatogli da Baudelaire) “il divin marchese” o più populisticamente passato alla storia come il marchese de Sade (quasi che le origini aristocratiche dello scrittore sollevassero maggiori prurigini sulle sue vicende). Oggi mi occuperò del primo romanzo la cui pubblicazione gli fu cagione di tante disavventure: “Justine ovvero le disgrazie della virtù”. Questa fu un’opera che egli fu costretto più volte a rinnegare per evitare la permanenza in carcere e credo che per uno scrittore, più della paternità biologica di un figlio, sia questo il maggior dolore in cui possa incorrere. In esso sono già contenuti, in nuce, tutti i semi della sua filosofia che troveranno maggiore compiutezza in altre opere più famose quali “La filosofia nel boudoir” e “Le 120 giornate di Sodoma”, uscito postumo sebbene composto prima di “Justine”. I critici, senza eccezioni, hanno individuato nella cameriera Catherine Trillet, alle dipendenze e vittima consenziente dei giochi del marchese, l’ispirazione autobiografica per la figura del personaggio di Justine. Romanzo sadico e sadiano per eccellenza, “Justine ovvero le disgrazie della virtù” è una lunghissima sequela di brutalità occorse alla giovane protagonista, pervicacemente abbarbicata all’idea di perseguire la Virtù come unico proposito di vita. Sade non le risparmia nulla e capovolgendo gli stilemi tipici del romanzo di formazione settecentesco, in un crescendo e accumularsi incessante che dimostrano con sempre maggior forza la teoria materialistica alla base della filosofia dello scrittore, la rende vittima di tutto ciò che una mente diabolicamente originale poteva concepire: stupri, orge, salassi, frustate, penetrazioni nel retto di strane palle. Justine sembra una sfortunata Candida, che in un mondo dominato dalla malvagità si ostina a restare aggrappata a principi morali che Sade si diverte a fustigare sia tramite il resoconto dei suoi travagli, sia con acutissime dissertazioni filosofiche. Rifacendosi alla tradizione platonica e a tanta letteratura didascalica ogni personaggio, (anche il truce bandito Cuore di ferro argomenta le sue tesi con un eloquio insospettabile in un rozzo criminale) giustifica le violenze infertele con il dispiegamento del più estremo materialismo che la società dei lumi potesse mai concepire. Dio non esiste e nemmeno il surrogato deistico che gli illuministi avevano creduto di individuare in quell’Essere razionale privo della pacchianità cultuale cristiana. La natura basta a se stessa, un Dio presuppone una creazione e quindi ammette un attimo in cui non c’era nulla. Ma tra gli attributi che tendono a caratterizzare questo Essere c’è anche quello dell’infinità e come poteva esistere Dio se prima c’era il nulla? E ammettendo che Dio è sempre esistito e che un giorno ha deciso di turbare la quiete perché lo ha fatto? Perché la non esistenza del mondo era un male? E allora perché prima la permetteva? E adesso che l’esistenza del mondo è un bene che motivo ha questo Essere adesso di esistere? È attraverso queste “petizioni di principio” che Sade dà libero sfogo al suo famoso e forsennato ateismo, così radicale da far pronunciare a uno dei suoi personaggi questo famoso aforisma: «Quando l’ateismo vorrà dei martiri, li designi: il mio sangue è pronto».

Justine Ovvero la Filosofia del Marchese de Sade

Naturalmente Sade si è attirato le critiche di teofobia per l’ossessiva acrimonia con cui smantellava a ogni occasione l’impalco deistico e alcuni critici, cercando di far rientrare nel loro orticello metafisico “lo spirito più libero che sia mai esistito” (definizione di Apollinaire), hanno addotto tale furia a un vaghissimo bisogno di trascendenza che in realtà il marchese nutriva. Queste furbe psicanalizzazioni da quattro soldi con cui si cerca di rendere meno pauroso l’ateismo di de Sade sono inevitabili dietrologie postume che ogni grande maestro dell’umanità deve sopportare. Sarebbe facile ricordare a costoro che anche nella vita lo scrittore francese fu così coerente con il suo disperato materialismo da desiderare una sepoltura anonima in un bosco di sua proprietà, e che quindi nemmeno alla gloria laica tra gli uomini egli aspirasse, figuriamoci a una divina. A proposito di psicanalisi e dintorni, pur se con qualche forzatura, Sade in alcune sue tesi sembra anticipare Freud per cui tutto deriva da motivazioni profonde e in special modo dalle repulsioni sessuali. Ma, a mio avviso, nel divertente gioco dei rimandi tra grandi pensatori è interessante sottolineare alcune analogie con Giacomo Leopardi e Friedrich Nietzsche. “Dialogo della Natura e di un islandese” del poeta recanatese sembra la versione edulcorata dei vari passi sadiani in cui i personaggi sostengono l’indifferenza della Natura alle azioni umane. Così come le buone azioni le sono irrilevanti altrettanto le sono quelle malvagie ma il marchese (e qui sta la maggior differenza con Leopardi che si abbandonava con apatia a questa dolorosa verità) va oltre e presuppone che è la Natura stessa a operare tramite il Crimine e che la Virtù, tendendo a una sostanziale immobilità delle cose, le sia più dannosa del Vizio, che al contrario ha l’innegabile merito di sconvolgere e mobilitare. Ne segue poi un’apologia del Male, inteso come forza primigenia e innata dell’uomo, che se fosse dannoso alla Natura essa avrebbe evitato di instillarci. In altri termini, se l’esistenza del forte e del debole è una necessità ontologica, se entrambi sono funzionali all’esistenza del mondo, sarebbe contro natura e contro le sue leggi che il forte non sopraffacesse il debole. Punire le prevaricazioni dei violenti sarebbe come punire il gobbo e lo zoppo: nessuno di loro ha colpa se la Natura li ha creati così. Di questa legge abbiamo evidenti raffronti nel mondo animale e vegetale, dove essa è sempre operante e non ristretta da chimerici e assurdi patti sociali (Rousseau è assente in queste righe soltanto per i ciechi e gli ignoranti). Allora l’oligarchia dei privilegiati, di chi ha inscritto nella sua pelle pulsioni sessuali (considerate) deviate, non deve frapporre nessun ostacolo morale nell’abusare della folta massa delle vittime, di quei deboli che soltanto per non avere la forza, il denaro e le astuzie di sfuggire alle angherie dei forti merita di essere sopraffatta. E qui la mente non può andare ad altri che a Nietzsche, alla sua teoria del superuomo (che io preferirei tradurre oltre-uomo, mi sia concessa questa vezzosità), al dominio degli eletti e dei guerrieri. Due piccoli eventi, tra i tanti, accomunano i due pensatori: entrambi, da certa critica benpensante, sono stati accusati con le loro teorie di giustificare i campi di sterminio nazista; ed entrambi dileggiano il sentimento della compassione. Così Sade in “Justine” si esprime: «Il sistema dell’amore per il prossimo è una chimera che dobbiamo al cristianesimo e non certo alla natura». E da canto suo Nietzsche impiega tutto “L’anticristo” a demolire la finta compassione cristiana. Sade, come scrive Carlo Palumbo, è probabilmente lo scrittore più citato e meno letto (a mio parere è una lotta alla pari proprio con Nietzsche). Prova ne è che se dalle sue perversioni è nato un filone pornografico con fini meramente onanistici (lo stesso marchese scrisse ironicamente nella prefazione a “Le 120 giornate di Sodoma” che con il suo libro intendeva causare al lettore quante eiaculazioni fosse possibile), dall’altro lato pochi sono quelli che continuerebbero a citarlo se conoscessero anche certi suoi passi controversi. Come non ricordare, tra i tanti, le pagine dove il signor Dubourg reputa giusta l’uccisione di orfani e bambini deformi perché inutili e d’intralcio alla macchina statale? O le perenni bestemmie di cui tutti i suoi protagonisti si macchiano nel momento dell’orgasmo? O la selvaggia blasfemia di cui Sade si compiace scrivendo di Don Severino che dopo aver infilato un’ostia nel deretano di Justine osa macchiare del suo seme il corpo del Signore? O la caustica elegia alla penetrazione anale? L’ultima provocazione, in particolare, fa scaturire un’altra osservazione riguardo le tendenze e i gusti del marchese de Sade: frequentissimi i rapporti anali, anzi vi sono alcuni personaggi che praticano soltanto quelli e disdegnano invece il tempio naturale della procreazione. Questa scelta può apparire come mero pretesto per orge il più possibile scatologiche ma in realtà si può intravedere qualcosa di più.

Justine Ovvero la Filosofia del Marchese de Sade

Innanzitutto la nota biografica: come risaputo il marchese, seppur sposato, aveva anche rapporti con il suo domestico e nella leggenda sono entrati i famosi culti sadiani che praticava con giovani di entrambi i sessi. Poi c’era l’indomita e spesso rivendicata (almeno negli scritti, perché nella vita reale lo scrittore, perseguitato prima dalla Monarchia, poi dai giacobini e infine anche da Napoleone, in età avanzata fu più accorto nelle esibizioni pubbliche, prostrato ormai da lunghi anni di carcere) voglia di stupire, di sovvertire le regole di quell’acquiescente moralismo serpeggiante anche all’interno dello stesso Illuminismo, di cercare unicamente il piacere e in ultimo anche la misoginia, latente e patente, di de Sade. Emblematiche, ad esempio le pagine in cui il conte di Gernande si scaglia contro le donne e la tesi che tocchi all’uomo fare felice un essere così inferiore: è come chiedere di avere pietà del pollo che mangia. Oppure lo splendido episodio del folle falsario Roland che uccide l’amata sorella, come se fosse un oggetto (sostantivo spesso ricorrente quando il marchese deve indicare le donne o le vittime degli abusi), soltanto per dimostrare a sé stesso e agli altri che lui non si lascia avviluppare da stupidi legami affettivi. “Justine ovvero le disgrazie della virtù” è, come detto, un libro didattico, con una tesi perseguita con ostinazione dalla prima all’ultima pagina. In questo mondo materialista, dove gli idoli, i falsi dei, i limiti della morale sono fallaci simboli con cui l’uomo tenta di trincerarsi per non sentire l’olezzo che fa la Materia, solo il Vizio si guadagna le fortune della Natura. Tutti, ma proprio tutti i persecutori di Justine, sono uomini benestanti, a cui la fortuna ha arriso o arriderà. L’unico individuo buono che la protagonista incontrerà nell’inferno che è la sua vita morirà avvelenato dalla Dubois. Con una cattiveria congenita, ma sì, con una dose di robusto sadismo (quello vero e non annacquato come spesso si usa adesso), Sade regala solo un attimo di felicità alla sua protagonista facendole ritrovare la sorella dopo molti anni di lontananza. Ma la Provvidenza a cui l’ingenua Justine si affidava, se esiste, è maligna: la ragazza morirà nel corso di un temporale colpita da un fulmine. È il trionfo definitivo della Natura maligna. Qualcuno ha scritto: «Il Settecento gli tappò la bocca, l’Ottocento ne parlò sottovoce, il Novecento può finalmente dire senza timori e falsi pudori il nome di de Sade». Quel qualcuno dimentica gli enormi guai che passò Pasolini quando diresse “Salò, o le 120 giornate di Sodoma” e le risate della critica alla visione di un film che fu bistrattato come spazzatura di un intellettuale delirante. E anche la mia amica, dal piedistallo cattolico su cui si eleva spesso, lo bollò come “inguardabile (i suoi aggettivi!) provocazione”. A breve le regalerò “Justine”, anche se prevedo già il suo lungimirante commento: ILLEGGIBILE.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :