di Giorgio Galli
“Kabul, Afghanistan, la guerra”
All’inizio della guerra del Sinai, Leonard Cohen diceva di se stesso: “Non sono un uomo, sono un soldato”. Dopo aver visto la guerra del Sinai, tornò di corsa in Canada con in tasca una bellissima canzone: Lover lover lover. Lo rimproverarono: dissero che aveva rinunciato a prender posizione. Ma a volte bisogna avere il coraggio di non prendere posizione, e Cohen, in bene e in male, ha sempre avuto il coraggio della propria ambiguità.
da Wikipedia
Io non riuscivo a prender posizione. Gli americani erano entrati in Afghanistan. E sì, pensavo che un’invasione del genere, condotta come risposta a un attentato orribile, avesse più l’aspetto d’una vendetta che di un tentativo di liberare gli afgani dalla schiavitù. Sì, la seconda guerra mondiale aveva portato alla caduta di Hitler. Sì, nella ex Jugoslavia c’era voluta la forza per fermare il massacro, e Dio sa quanto a Srebrenica sarebbe servito un contingente che potesse anche usarla, la maledetta forza. Ma erano cose diverse. Pearl Harbor era servita a Roosevelt per convincere gli americani a entrare in guerra; le Torri Gemelle sembravano soprattutto esser servite a Bush per legittimare il suo mandato presidenziale, iniziato con grida di “Usurpatore!”, dopo che una manciata di voti, arrivati in ritardo da una Florida amministrata da suo fratello, era servita a mandarlo alla Casa Bianca superando di misura il suo rivale Al Gore.
Oggi ragioniamo su questi fatti col senno di poi. Io allora non avevo il senno di poi. Avevo solo un giornale e il mio buonsenso. E quando vidi le foto della liberazione di Kabul, con quei bambini che correvano, finalmente liberi di correre e giocare, pensai: finalmente è finita! Non era finita per niente, ma io, come tutti quelli che vivono seduti nelle loro comode case, avevo bisogno d’illudermi. Avevo anch’io il mio umano bisogno di pontificare e di farmi un’opinione. Col tempo ho imparato che farsi un’opinione è un mestiere faticoso, e che per farsi un’opinione bisogna prima imparare, imparare, imparare.
L’operazione Giustizia Infinita aveva attaccato un Paese ancora disseminato dalle mine antiuomo a forma di giocattolo che i militari della “società degli uguali” sovietica avevano distribuito sulla sua superficie. Un governo di fondamentalisti teneva sotto scacco la popolazione, cui mancavano anche i beni più essenziali. Gli unici ad avere un po’ di reddito erano i narcotrafficanti, e su di loro l’esercito americano contava come spie e confidenti. Si parlava di guerra umanitaria, di guerra per rovesciare una dittatura e instaurare una democrazia; ma a me sembrava una guerra di religione, viste le sue parole d’ordine, oppure una guerra per imporre un modello unico di vita e di economia, cui si credeva con un dogmatismo anch’esso religioso. Eppure, quando vedemmo le foto dei bambini di Kabul che correvano felici e giocavano finalmente coi loro aquiloni, quando vedemmo quelle foto anche noi “scettici”, anche noi che eravamo stati e rimanevamo critici, credemmo per un attimo che l’intervento avesse avuto buon esito. Ci saremmo ricreduti negli anni successivi.
E devo fare una confessione, a questo punto. Anch’io, come la gente che ho criticato, ero un ultra-individualista, quasi un autistico. Meditavo sulle sorti del mondo, ma il mio filosofeggiare si disperdeva nel filosofeggiare su mille altre cose. Rientravo a casa e ascoltavo il Concerto per la mano sinistra di Ravel, per ore. La musica era più importante della vita per me, benché avessi smesso di studiarla da sette anni. E in fondo m’importava più di Ravel che dell’Afghanistan. Non ero migliore di nessuno, ero una di quelle anime belle a cui Hegel avrebbe ricordato con durezza che la buona intenzione, senza l’azione, non ha valore.
Siena (da Wikipedia)
Avevo, di diverso, il fatto che non amavo i gruppi; ma più per una mia naturale anaffettività che per sensibilità e consapevolezza. Provavo un senso di morte. La udivo nelle grida degli uccelli, l’avvertivo nella mia vita scandita dagli orari della mensa. Gli stessi colori di Siena, le sue stesse vedute avevano un che di funerario: la sera, nei pressi di San Domenico, sembrava a volte di trovarsi vicino a un cimitero. Nel silenzio che calava sulla zona di Sant’Agostino mi pareva di avvertire la vicinanza delle catacombe. La Toscana è piena di cipressi. Sotto terra scorre ancora, come un fiume carsico, lo spirito degli Etruschi: un popolo che aveva un legame strettissimo con la morte, che accettava il deperimento di ogni cosa con tanto fatalismo da costruire i suoi templi in legno, anziché in pietra.
E fu durante una delle passeggiate che facevo in compagnia di me stesso, una sera di ottobre del 2001, che mi apparvero alla mente questi versi. Il paradosso del mio senso civico, del mio interesse e amore per il mondo, è che nasceva e si esprimeva solo nell’isolamento.
Sono uscito per sentire l’odore della pioggia dell’erba che si sparge per l’aria, dell’ozono. Sono uscito a vedere macchine affacciarsi coi loro fanali nel silenzio di Siena. A sentire le gocce di pioggia residue nei parchi e il bagnato che impregna la terra i sassi l’aria. A vedere gli alberi le case illuminate il cielo della notte avvolti da un giallo brumato, quasi rosso, mentre lontano per un attimo – un sogno – sparivano le bombe di Kabul.