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Kafka, Franz - IL FUOCHISTA (America, 1927)

Creato il 20 settembre 2011 da Ilibri

Quando il sedicenne Karl Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori perché una cameriera l'aveva sedotto e aveva avuto un figlio da lui, entrò con la nave a velocità ridotta nel porto di New York, vide la Statua della Libertà, che già stava contemplando da tempo, come immersa in una luce d'un tratto più intensa. Il braccio con la spada sembrava essersi appena alzato, e attorno alla sua figura spiravano liberi i venti.

«Com'è alta!» disse fra sé, e poiché non si decideva ad andarsene, a poco a poco fu spinto fino al parapetto della nave dalla massa sempre crescente dei facchini che lo oltrepassavano.

Un giovane, che aveva conosciuto di sfuggita durante il viaggio, disse passando: «Allora, non ha ancora voglia di scendere a terra?». «Ma sono pronto», disse Karl sorridendogli, e con baldanza e perché era un ragazzo robusto, si caricò la valigia in spalla. Ma quando seguì con lo sguardo il suo conoscente che si allontanava con gli altri roteando il bastone, si accorse sgomento di aver dimenticato l'ombrello giù nella nave. Pregò subito il conoscente, che non sembrava molto entusiasta, di voler gentilmente attendere un momento vicino alla sua valigia, valutò la posizione per orientarsi al ritorno e se ne andò di corsa. Sotto, con suo rincrescimento, trovò sbarrato per la prima volta un passaggio che gli avrebbe di molto abbreviato la strada, probabilmente a causa dello sbarco dei passeggeri, e dovette cercare a fatica la via per scale che non finivano mai, lungo corridoi pieni di curve, attraverso una cabina vuota con una scrivania abbandonata, sinché infine, dato che aveva percorso quel tragitto soltanto una o due volte e sempre in compagnia di qualcuno, si accorse di essersi smarrito del tutto. Disorientato, poiché non aveva incontrato anima viva e udiva sempre soltanto lo scalpiccio di migliaia di piedi sopra di sé e da lontano, come un anelito, gli arrivava l'ultima eco delle macchine ormai ferme, senza riflettere cominciò a bussare a una porticina vicino alla quale si era fermato nel suo vagabondare.

«È aperto», gridò qualcuno dall'interno, e con un vero sospiro di sollievo Karl aprì la porta. «Perché bussa come un pazzo?» chiese un uomo gigantesco, alzando appena gli occhi su Karl. Da un abbaino in alto una luce fosca, quasi si fosse consumata da tempo su nella nave, pioveva nella misera cabina, nella quale, come in un deposito, erano stipati un letto, un armadio, una sedia e l'uomo. «Mi sono smarrito», disse Karl, «durante il viaggio non me n'ero mai accorto, ma è una nave spaventosamente grande». «Sì, in questo ha ragione», disse l'uomo con un certo orgoglio, senza smettere di trafficare attorno alla serratura di una piccola valigia, su cui premeva entrambe le mani restando in ascolto per cogliere il momento dello scatto. «Ma entri!» continuò poi. «Non vorrà star lì fuori!». «Non disturbo?» chiese Karl. «E perché dovrebbe disturbare?». «Lei è tedesco?» cercò di rassicurarsi Karl, avendo sentito parlare dei pericoli che in America minacciano i nuovi arrivati, soprattutto da parte degli irlandesi. «Lo sono, lo sono», rispose l'altro. Karl esitava ancora. Allora l'uomo afferrò d'un tratto la maniglia della porta, e chiudendola in fretta, spinse dentro anche Karl. «Non posso sopportare che mi guardino dentro dal corridoio», disse l'uomo, che trafficava di nuovo con la sua valigia, «tutti passano di qui e guardano dentro, è intollerabile!». «Ma non c'è nessuno nel corridoio» disse Karl, che stava lì a disagio schiacciato contro i montanti del letto. «Già, adesso», replicò l'uomo. Però stiamo parlando di adesso, pensò Karl, è difficile discutere con costui! «Si stenda sul letto, così avrà più posto», disse l'uomo. Karl scivolò nel letto alla meglio e al primo vano tentativo di saltarvi dentro rise forte. Ma non appena fu nel letto, gridò: «Dio mio, ho completamente dimenticato la mia valigia!». «E dov'è?». «Su in coperta, un conoscente la sorveglia. Come si chiama, poi?». E dalla tasca segreta che sua madre gli aveva cucito per il viaggio nella fodera della giacca, prese un biglietto da visita.

«Butterbaum, Fraz Butterbaum». «Le serve molto la valigia?» «Naturalmente». «E allora perché l'ha affidata a un estraneo?». «Avevo dimenticato il mio ombrello e sono corso a prenderlo, ma non volevo tirarmi dietro la valigia. E per giunta mi sono anche smarrito». «È solo? Senza compagnia?». «Sì, solo». «Forse dovrei stare con quest'uomo», passò per la testa a Karl, «dove potrei trovare un amico migliore?». «E adesso ha perso anche la valigia. Per non parlare poi dell'ombrello». E l'uomo si sedette sulla sedia, come se ora il problema di Karl avesse acquisito un certo interesse per lui. «Ma io credo che la valigia non sia ancora persa». «Chi crede è felice», disse l'uomo, grattandosi con forza i capelli scuri, corti e folti, «sulla nave con i porti cambiano anche le usanze. Ad Amburgo il suo Butterbaum forse avrebbe sorvegliato la valigia, qui molto probabilmente non c'è più traccia di nessuno dei due». «Allora devo salire subito a dare un'occhiata», disse Karl tentando di uscire dalla cuccetta. «Resti lì», disse l'uomo e premendogli una mano sul petto, in modo persino scortese, lo respinse sul letto. «Ma perché?» chiese irritato Karl. «Perché non ha senso», disse l'uomo, «tra un attimo vado anch'io, quindi andremo insieme. O la valigia è stata rubata, e allora non c'è niente da fare, o quel tipo l'ha abbandonata, e allora la troveremo più facilmente quando la nave si sarà svuotata. E così pure il suo ombrello».

«Conosce bene la nave?» chiese Karl diffidente, e l'idea, peraltro convincente, di poter trovare più facilmente le sue cose sulla nave vuota gli sembrò sospetta. «Certo, sono fuochista», disse l'uomo. «È fuochista!», esclamò contento Karl, come se questa notizia superasse tutte le aspettative, e puntando il gomito, guardò l'uomo con maggiore attenzione.

«Proprio davanti alla cabina in cui dormivo con lo slovacco c'era un finestrino che dava sulla sala macchine». «Sì, è là che lavoravo», disse il fuochista. «Mi ha sempre interessato molto la tecnica», disse Karl, seguendo un certo ragionamento, «e certo sarei diventato igegnere se non fossi dovuto partire per l'America». «E perché è dovuto partire?». «Ah, così», disse Karl, e con un gesto della mano liquidò tutta la storia. Intanto guardò sorridendo il fuochista, come a pregarlo di aver pazienza per ciò che non aveva confessato. «Ci sarà pure un motivo», disse il fuochista, e non era chiaro se con questo voleva sollecitare o rifiutare il racconto del motivo. «Adesso anch'io potrei diventare fuochista», disse Karl, «adesso ai miei genitori non importa niente di quello che farò». «Il mio posto si libera», disse il fuochista, e nella piena coscienza della sua libertà infilò le mani nelle tasche e allungò sul letto le gambe ricoperte di pantaloni spiegazzati grigio ferro, fatti di un materiale simile al cuoio. Karl dovette addossarsi ancor più contro la parete. «Abbandona la nave?». «Certo, partiamo oggi». «E perché? Non le piace il lavoro?». «Si tratta delle circostanze, non è sempre decisivo che a uno piaccia o no. Del resto ha ragione, non è che mi piaccia. Probabilmente lei non pensa sul serio di diventare fuochista, ma è proprio in questi casi che si può diventarlo più facilmente. Quindi io glielo sconsiglio nel modo più assoluto. Se lei in Europa voleva studiare, perché non studiare qui? Le università americane sono incomparabilmente migliori di quelle europee». «Certo, è possibile», disse Karl, «però non ho quasi denaro per studiare. A dire il vero ho letto di qualcuno che di giorno lavorava in un negozio e di notte studiava, finché è diventato dottore e credo anche sindaco, ma per questo occorre una grande perseveranza, no? Io temo di non averla. Inoltre non sono mai stato granché come scolaro, e in realtà lasciare la scuola non mi è stato difficile. E forse qui le scuole sono ancora più severe. L'inglese non lo so quasi per niente. Poi credo che qui siano molto prevenuti contro gli stranieri». «L'ha già notato anche lei? Beh, allora va bene. Allora lei è il mio uomo. Consideri, in fondo siamo su una nave tedesca che fa parte della linea Amburgo-America, e perché non siamo slo tedeschi qui? Perché il capomacchinista è un rumeno? Si chiama Schubal. Da non credersi. E questo farabutto tartassa noi tedeschi su una nave tedesca! Non creda» - gli mancò l'aria e si sventolò con la mano -,«che mi lagni per il piacere di lagnarmi. So che lei non ha alcun potere e che è soltanto un povero ragazzo. Ma è troppo duro!». E picchiò più volte il pugno sul tavolo senza staccare gli occhi dal pugno mentre picchiava. «Ho pur prestato servizio su tante navi», e snocciolò venti nomi uno dopo l'altro come se fossero una sola parola, Karl si confuse del tutto, «e mi sono distinto, sono stato lodato, ero un lavoratore gradito ai miei capitani, per qualche anno sono stato persino sullo stesso mercantile a vela», e si alzò, come se questo fosse il vertice della sua vita, «e qui su questa nave, su questo cassone, dove tutto va da sé, dove non è richiesta nessuna abilità, qui non valgo niente, qui do sempre fastidio a Schubal, sono un fannullone, merito di esser buttato fuori e ricevo lo stipendio come se fosse un favore. Lo capisce lei? Io no». «Questo non deve tollerarlo», disse Karl agitato. Aveva quasi dimenticato di trovarsi sul suolo insicuro di una nave, presso la costa di un continente sconosciuto, tanto si sentiva a suo agio sul letto del fuochista. «È già stato dal capitano? Ha già cercato di ottenere giustizia da lui?». «Ah, se ne vada, se ne vada via. Non voglio averla qui. Lei non ascolta quello che dico, e mi dà consigli. Come potrei andare dal capitano!». E il fuochista, stanco, si rimise a sedere e si prese il viso tra le mani.

«Non saprei dargli un consiglio migliore», si disse Karl. E pensò che avrebbe fatto meglio ad andare a prendere la sua valigia anziché star lì a dare consigli che venivano soltanto giudicati sciocchi. Quando il padre gli aveva consegnato la valigia per il futuro, gli aveva chiesto scherzando: «Per quanto tempo l'avrai?» e ora forse la fida valigia era perduta sul serio. L'unico conforto ormai era che il padre non avrebbe potuto venire a conoscenza della sua situazione attuale, neanche se avesse indagato. La società di navigazione poteva dire soltanto che lui era arrivato con la nave fino a New York. Ma a Karl dispiaceva di non aver quasi usato la roba della valigia, mentre ad esempio da tempo avrebbe avuto bisogno di cambiare la camicia. Quindi aveva risparmiato la biancheria nel luogo sbagliato; e adesso, proprio all'inizio della sua carriera, quando sarebbe stato necessario comparire con abiti puliti, avrebbe dovuto mostrarsi con la camicia sporca. Per il resto la perdita della valigia non sarebbe stata tanto grave, perché l'abito che indossava era persino migliore di quello nella valigia, che in realtà era soltanto un abito per l'emergenza, rattoppato dalla madre poco prima della sua partenza. Ora ricordò anche che nella valigia c'era ancora un pezzo di salame veronese, che la madre gli aveva aggiunto come dono extra, del quale tuttavia aveva potuto mangiare solo una minima parte, perché durante il viaggio non aveva mai avuto appetito e la zuppa distribuita sull'interponte gli era stata più che sufficiente. Ma ora avrebbe voluto avere a portata di mano il salame per farne dono al fuochista. Poiché gente simile si conquista facilmente con una piccolezza, Karl l'aveva appreso da suo padre, che distribuendo qualche sigaro conquistava tutti gli impiegati di grado inferiore con cui aveva a che fare per lavoro. Ora a Karl non restava che il suo denaro da regalare, e per il momento non voleva toccarlo, dato che forse aveva già perso la valigia. I suoi pensieri vi ritornarono, e ora in verità non riusciva a capire perhé durante il viaggio avesse sorvegliato quella valigia con tanta attenzione da aver quasi perso il sonno, mentre ora se l'era lasciata portar via così facilmente. Ricordò le cinque notti durante le quali aveva sospettato in continuazione un piccolo slovacco che dormiva alla sua sinistra, due posti più in là, di aver preso di mira la sua valigia. Questo slovacco aveva soltanto aspettato che Karl, colto da debolezza, si appisolasse un momento per poter spingere verso di sé la valigia con un lungo bastone con cui durante il giorno giocava sempre o si esercitava. Di giorno questo slovacco sembrava del tutto innocente, ma non appena si faceva notte, a intervalli si alzava dal suo giaciglio e guardava con tristezza verso la valigia di Karl. Karl l'aveva visto bene, perché c'era sempre qualcuno che, con l'inquietudine dell'emigrante, accendeva un lumino, malgrado fosse vietato dal regolamento della nave, e cercava di decifrare opuscoli incomprensibili delle agenzie d'emigrazione. Se questo lume era vicino, Karl poteva anche sonnecchiare un poco, ma se era lontano o se c'era buio, allora doveva tenere gli occhi aperti. Questo sforzo l'aveva proprio sfinito, e ora forse era stato del tutto inutile. Quel Butterbaum, se mai avesse potuto ritrovarlo da qualche parte! In quel momento fuori, da lontano, nel silenzio fin'allora totale, risuonarono colpetti brevi, come un rumore di passi infantili, poi si avvicinarono e il rumore si fece più forte, e infine si riconobbe una marcia tranquilla di uomini.

Evidentemente camminavano in fila, com'era naturale nell'angusto corridoio, e si udiva un tintinnio come di armi. Karl, che era già stato sul punto di abbandonarsi nella cuccetta a un sonno libero da tutte le preoccupazioni per la valigia e lo slovacco, trasalì e dette una spinta al fuochista per metterlo in guardia, perché sembrava proprio che i primi del corteo fossero arrivati davanti alla porta. «Questa è l'orchestra della nave», disse il fuochista, «hanno suonato in coperta e adesso vanno a fare i bagagli. Ora è tutto finito e possiamo andare. Venga». Prese per mano Karl, all'ultimo istante tolse dalla parete sopra il letto un'immagine incorniciata della Madonna, la ficcò nella tasca interna della giacca, afferrò la sua valigia e lasciò in fretta la cabina con Karl.

«Adesso andrò in ufficio e dirò il mio parere a quei signori. Non c'è più neanche un passeggero, non occorre farsi riguardi». Il fuochista ripeté queste parole varie volte, e mentre camminava, con un calcio di lato cercò di schiacciare un ratto che gli aveva incrociato la strada, ma riuscì soltanto a spingerlo più in fretta nel buco in cui il ratto si era rifugiato in tempo. In genere il fuochista era lento nei suoi movimenti, perché le sue gambe, anche se lunghe, erano troppo pesanti.

Attraversarono una parte della cucina dove alcune ragazze con i grembiuli sporchi - li sporcavano di proposito - lavavano le stoviglie in grandi tinozze. Il fuochista chiamò una certa Line, le mise il braccio intorno al fianco e la condusse con sé per un tratto, mentre lei si stringeva con civetteria contro il suo braccio. «Adesso ci pagano, vuoi venire con me?» chiese. «Perché dovrei affaticarmi, portami qui i soldi», rispose lei, gli sfuggì da sotto il braccio e si allontanò di corsa. «Dove hai pescato questo bel ragazzo?» gridò ancora, ma senza aspettare risposta. Si udirono le risate di tutte le ragazze che avevano interrotto il lavoro.

Ma loro continuarono a camminare e arrivarono a una porta sopra la quale c'era un frontoncino sorretto da piccole cariatidi dorate. Per essere l'arredamento di una nave sembrava proprio sontuoso. Karl si accorse di non essere mai andato da quella parte, che probabilmente durante il viaggio era stata riservata ai passeggeri di prima e di seconda classe, mentre adesso, prima della grande pulizia, avevano tolto le porte di separazione. Infatti avevano anche già incontrato uomini con la scopa in spalla che avevano salutato il fuochista. Karl si stupì di tutto quel traffico, perché nel suo interponte non aveva mai avuto modo di notarlo. Lungo i corridoi passavano anche i fili dell'impianto elettrico, e si sentiva ininterrotto il suono di una campanella.

Il fuochista bussò con rispetto alla porta, e quando gridarono «Avanti!» invitò Karl con un cenno della mano a entrare senza timore. E Karl entrò, ma rimase fermo sulla soglia. Dalle tre finestre della cabina vide le onde del mare, e mentre contemplava il loro gaio movimento gli batteva il cuore, come se non avesse visto il mare di continuo per cinque lunghi giorni. Grandi navi incrociavano le loro rotte e cedevano al moto ondoso solo per quanto il loro peso lo consentiva. Se si socchiudevano gli occhi, sembrava che già solo il peso facesse barcollare le navi. Sugli alberi erano issate bandiere piccole ma lunghe, che, sia pur tese dalla traversata, continuavano a sventolare qua e là. Probabilmente da qualche nave da guerra risuonarono salve di saluto, e le canne dei cannoni di una di queste navi che passava non molto distante, con il loro rivestimento d'acciaio dai riflessi scintillanti, erano come accarezzate dalla traversata tranquilla, liscia e tuttavia non del tutto orizzontale. Le navi e le imbarcazioni più piccole si potevano vedere solo in lontananza, almeno dalla porta, mentre scivolavano in massa negli spazi tra le grosse navi. Ma dietro a tutto questo c'era New York, e guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli. Sì, quella cabina dava l'esatta sensazione del luogo circostante.

A un tavolo rotondo sedevano tre signori, uno un ufficiale con l'uniforme azzurra della marina, gli altri due funzionari del comando portuale, con le uniformi americane nere. Sul tavolo c'erano pile di documenti vari che l'ufficiale scorreva con la penna in mano per poi porgerli agli altri due, che ora leggevano, ora prendevano appunti, ora riponevano i documenti nelle loro cartelle, mentre di tanto in tanto uno dei due, che faceva quasi ininterrottamente un piccolo rumore con i denti, dettava qualcosa che il suo collega metteva a protocollo.

A una scrivania vicino alla finestra, con le spalle rivolte verso la porta, era seduto un uomo di bassa statura che trafficava con alcuni registri allineati davanti a lui su un robusto scaffale all'altezza della sua testa. Lì accanto c'era una cassa aperta e, almeno a prima vista, vuota.

La seconda finestra era libera e aveva la vista migliore. Accanto alla terza c'erano due signori immersi in una conversazione a mezza voce. Uno era appoggiato al davanzale, indossava anche lui l'uniforme della marina e giocherellava con l'impugnatura della spada. Quello che parlava con lui era rivolto verso la finestra e di tanto in tanto, quando si muoveva, lasciava vedere parte delle decorazioni sul petto dell'altro. Era in abiti civili e aveva un bastoncino di bambù che sporgeva come una spada, poiché teneva entrambe le mani sui fianchi.

Karl non ebbe il tempo di osservare tutto, perché subito un inserviente si avvicinò a loro e chiese al fuochista che cosa voleva, facendogli intendere con un'occhiata che quello non era il suo posto. Il fuochista, a voce bassa così come era stato interrogato, rispose che voleva parlare col capocassiere. L'inserviente per parte sua respinse questa richiesta con un cenno della mano, tuttavia, facendo un ampio giro attorno al tavolo rotondo, si avvicinò in punta di piedi all'uomo con i registri. Costui - come si vide con chiarezza - restò addirittura impietrito all'udire le parole dell'inserviente, ma infine si girò verso l'uomo che desiderava parlargli e si mise a gesticolare in segno di netto rifiuto verso di lui, e per essere ancor più sicuro, anche verso l'inserviente. Quindi l'inserviente ritornò dal fuochista e gli disse, in un tono come se gli confidasse qualcosa: «Esca subito dalla cabina!».

A questa risposta il fuochista abbassò gli occhi su Karl, come se questi fosse il suo cuore a cui poteva dire in silenzio la sua pena. Senza stare a riflettere, Karl lasciò il suo posto, corse attraverso la cabina così da sfiorare quasi la poltroncina dell'ufficiale, l'inserviente gli corse dietro a testa bassa con le braccia pronte ad afferrarlo, come se stesse dando la caccia a un insetto, ma Karl fu il primo a raggiungere il tavolo del capocassiere e vi si aggrappò, nel caso che l'inserviente tentasse di trascinarlo via.

Naturalmente la cabina si animò subito. L'ufficiale vicino al tavolo era balzato in piedi, i funzionari del comando portuale stavano a guardare tranquilli ma attenti, i due signori vicino alla finestra si erano avvicinati contemporaneamente, l'inserviente, che riteneva fosse fuori posto star lì quando signori tanto importanti mostravano già d'interessarsi, si fece indietro. Il fuochista accanto alla porta attendeva emozionato il momento d'intervenire. Infine il capocassiere fece un'ampia rotazione a destra nella sua poltroncina.

Karl frugò nella sua tasca segreta, senza preoccuparsi di mostrarla a tutta quella gente, e tirò fuori il passaporto, che posò aperto sul tavolo a titolo di presentazione. Il capocassiere non sembrò dare molta importanza a quel passaporto perché lo spinse di lato con due dita, dopo di che Karl, come se quella formalità fosse stata espletata in modo soddisfacente, ripose di nuovo il passaporto.

«Mi permetto di affermare», cominciò poi, «che a mio avviso il fuochista ha subìto un torto. Qui c'è un certo Schubal che l'ha preso di mira. Il fuochista ha già prestato servizio con piena soddisfazione su molte navi, delle quali può fare l'elenco, è solerte, svolge bene il suo lavoro e non si vede perché proprio su questa nave, dove il servizio non è gravoso come ad esempio sui mercantili a vela, non dovrebbe fare il suo dovere. Può quindi trattarsi solo di una calunnia, che gl'impedisce di farsi strada e lo priva di quel riconoscimento che altrimenti non gli mancherebbe di certo.

Ho parlato di questa faccenda solo in generale, i suoi reclami specifici li esporrà lui stesso». Con questo discorso Karl si era rivolto a tutti i presenti, perché in effetti tutti erano stati ad ascoltare e sembrava molto più probabile trovare un uomo giusto tra tutti insieme piuttosto che cercarlo proprio nel capocassiere. Inoltre, per astuzia, Karl aveva omesso di conoscere il fuochista da così breve tempo. Del resto avrebbe parlato ancor meglio se non fosse stato distratto dalla faccia rossa del signore con il bastoncino di bambù, che dalla sua attuale posizione vedeva per la prima volta. «È tutto giusto parola per parola», disse il fuochista prima ancora che qualcuno gli avesse chiesto qualcosa, anzi, prima ancora che qualcuno avesse guardato dalla sua parte. Questa precipitazione del fuochista sarebbe stata un grande errore se il signore con le decorazioni, che, come balenò d'un tratto a Karl, era senz'altro il capitano, non avesse evidentemente già deciso di ascoltare il fuochista. Infatti tese la mano e gli gridò: «Venga qui!» con una voce così dura, che si sarebbe potuta battere col martello. Ora tutto dipendeva dal comportamento del fuochista, perché per quanto riguardava la sua causa, Karl non aveva dubbi che fosse giusta.

Fortunatamente in questa circostanza il fuochista si rivelò già molto esperto delle cose del mondo. Con una calma esemplare, pescò subito nella sua valigetta un mucchietto di certificati come pure un taccuino e con questi, come se fosse più che naturale, si diresse verso il capitano senza curarsi minimamente del cassiere e dispose la sua documentazione sul davanzale della finestra. Al capocassiere non restò altro da fare se non avvicinarsi anche lui. «Quest'uomo è un noto piantagrane», disse a mo' di spiegazione, «passa più tempo alla cassa che non nella sala macchine. Ha portato Schubal, che è un uomo tranquillo, alla disperazione totale. Stia a sentire!» e si rivolse al fuochista, «la sua invadenza passa davvero il segno. Quante volte l'hanno già buttata fuori dall'ufficio pagamenti, come si merita per le sue pretese, tutte completamente e assolutamente ingiustificate. Quante volte da lì si è precipitato alla cassa centrale! Quante volte le è già stato detto con le buone che Schubal è il suo diretto superiore, e che lei, in quanto suo sottoposto, deve trattare soltanto con lui! E ora viene persino qui quando c'è il signor capitano, non si vergogna d'infastidire anche lui, ma ha l'ardire di condurre con sé, come portavoce ammaestrato delle sue assurde accuse, questo ragazzo, che comunque vedo sulla nave per la prima volta!».

Karl fece un grosso sforzo per non balzare in avanti. Ma si era già avvicinato anche il capitano, che disse: «Ascoltiamo quest'uomo. È anche vero che da tempo Schubal diventa sempre più indipendente, con questo però non sto dicendo nulla a suo favore». Queste ultime parole erano rivolte al fuochista; era più che naturale che il capitano non potesse subito intercedere per lui, ma tutto sembrava mettersi bene. Il fuochista cominciò le sue spiegazioni e da principio riuscì a controllarsi, dando sempre a Schubal il titolo di «signore». Come si rallegrava Karl, vicino alla scrivania abbandonata del capocassiere, dove per la soddisfazione continuava a premere il piatto di una bilancia pesalettere! Il signor Schubal è ingiusto! Il signor Schubal favorisce gli stranieri! Il signor Schubal aveva allontanato il fuochista dalla sala macchine e gli aveva ordinato di pulire i cessi, cosa che non spettava certo al fuochista. Una volta fu messa in dubbio persino la capacità del signor Schubal, la quale sarebbe stata più apparente che reale. A questo punto Karl fissò il capitano con la massima intensità, in modo confidenziale, come se fosse un suo collega, soltanto perché non si lasciasse influenzare sfavorevolmente dal modo di esprimersi piuttosto maldestro del fuochista. Comunque da tutti quei discorsi non veniva fuori niente di preciso, e anche se il capitano continuava a guardare dinanzi a sé, deciso con ogni evidenza ad ascoltare il fuochista fino in fondo, gli altri signori divennero impazienti, e la voce del fuochista presto non risuonò più nel silenzio totale, cosa che dava adito a qualche preoccupazione. Il signore in borghese fu il primo a entrare in azione, battendo sul pavimento, anche se leggermente, il suo bastoncino di bambù. Gli altri signori naturalmente si guardarono attorno, i funzionari del comando portuale, che evidentemente avevano fretta, ripresero i documenti e cominciarono a scorrerli, sia pure in modo un po' distratto, l'ufficiale della marina si riavvicinò al tavolo, e il capocassiere, che pensava di ver partita vinta, fece un profondo sospiro d'ironia. Dalla distrazione generale che stava subentrando sembrava immune soltanto l'inserviente, che condivideva parte delle sofferenze di quel pover'uomo sottoposto ai superiori, e con gran serietà faceva cenni a Karl come se volesse fargli capire qualcosa.

Nel frattempo davanti alle finestre la vita del porto continuava, una chiatta con una montagna di botti che dovevano essere state sistemate a meraviglia perché i movimenti del mare non le facevano rotolare passò davanti alla finestra e oscurò quasi l'ambiente; piccole barche a motore che ora Karl avrebbe potuto osservare con attenzione, se avesse avuto tempo, sfrecciavano via diritte sotto i minimi movimenti delle mani di un uomo in piedi davanti al timone.

Singolari corpi galleggianti emergevano di tanto in tanto dalle acque irrequiete, subito erano risommersi dalle onde e sprofondavano dinanzi allo sguardo stupefatto; scialuppe di transatlantici avanzavano spinte da marinai che remavano con accanimento ed erano gremite di passeggeri che stavano immobili in attesa, così come li avevano stipati, anche se alcuni non potevano fare a meno di girare la testa per guardare il paesaggio che cambiava di volta in volta. Un moto senza fine, un'inquietudine trasmessa dall'inquieto elemento agli uomini incerti e alle loro opere! Tutto quindi invitava alla fretta, alla chiarezza, all'esposizione precisa: e che cosa faceva il fuochista? Parlava e parlava immerso in un bagno di sudore, da tempo non riusciva più a tenere fra le mani tremanti le carte che aveva messo sul davanzale; da tutte le direzioni possibili gli affluivano lagnanze a proposito di Schubal, ognuna delle quali a suo avviso sarebbe bastata a seppellirlo definitivamente, ma ciò che lui riusciva ad esporre al capitano era soltanto un caos ben misero nel suo insieme. Già da tempo il signore con il bastoncino di bambù fischiava sommesso guardando il soffitto, i funzionari del comando portuale trattenevano l'ufficiale al loro tavolo e non davano segno di lasciarlo libero, il capocassiere chiaramente non s'immischiava soltanto perché vedeva la calma del capitano, l'inserviente aspettava sull'attenti di momento in momento un ordine del capitano riguardante il fuochista.

A questo punto Karl sentì di dover intervenire. Quindi si diresse lentamente verso il gruppo e mentre camminava rifletté con la massima rapidità sul modo più opportuno di affrontare la questione. Era il momento giusto, di lì a poco quasi certamente sarebbero stati scacciati entrambi dall'ufficio. Il capitano poteva anche essere un brav'uomo e per di più proprio in quel momento, così sembrava a Karl, doveva avere un motivo particolare per dimostrare di essere un superiore giusto, ma dopotutto non era uno strumento che si può suonare all'infinito, e proprio così lo trattava il fuochista, senza dubbio per l'indignazione smisurata che erompeva dal suo intimo.

Quindi Karl disse al fuochista: «Deve esporre i fatti in modo più semplice, più chiaro, il capitano non può giudicarli così come lei glieli racconta. Pensa forse che conosca tutti i macchinisti e i mozzi per nome o addirittura per soprannome, sicché, solo a sentire uno di questi nomi, sa subito di chi si tratta? Cerchi di dare un ordine ai suoi reclami, esponga prima il più importante e via via gli altri, e forse poi non sarà neppure più necessario nominarli tutti. A me li ha sempre espressi con tanta chiarezza!». «Se in America è possibile rubare valigie, è anche possibile mentire qualche volta», pensò a sua giustificazione.

Se soltanto fosse servito a qualcosa! Non era forse già troppo tardi? All'udire la voce nota il fuochista s'interruppe subito, ma già i suoi occhi, inondati di lacrime per l'orgoglio maschile offeso, per i terribili ricordi e per la grave situazione del momento, non riuscivano neppure più a riconoscere Karl. Del resto, come poteva ora il fuochista - Karl lo capì davanti all'uomo che si era ammutolito -, come poteva ora d'un tratto cambiare il suo modo di parlare, quando gli sembrava di aver già detto tutto ciò che c'era da dire senza aver avuto il minimo riconoscimento? Nel contempo aveva l'impressione di non aver ancora detto nulla, e tuttavia ora non poteva certo più pretendere che quei signori si sorbissero tutta la storia ancora una volta. E in un momento simile ci si metteva anche Karl, il suo unico difensore, con l'intenzione di dargli buoni consigli, e invece gli dimostrava soltanto che tutto era perduto.

«Fossi intervenuto prima, anziché guardare dalla finestra!», si disse Karl, chinò la testa dinanzi al fuochista e si batté le mani sui fianchi, come a significare la fine di ogni speranza.

Ma il fuochista fraintese questo gesto, fiutò piuttosto in Karl qualche segreto rimprovero nei suoi confronti e con la buona intenzione di fargli cambiare idea, per coronare la sua impresa cominciò a litigare con Karl. Proprio allora, nel momento in cui i signori al tavolo rotondo erano oltremodo indignati per l'inutile chiasso che disturbava i loro lavori importanti, nel momento in cui il capocassiere cominciava a trovare incomprensibile la pazienza del capitano e tendeva allo sfogo immediato, nel momento in cui l'inserviente, di nuovo tutto dalla parte dei suoi superiori, fulminava il fuochista con sguardi furibondi, e in cui infine il signore con il bastoncino di bambù, al quale persino il capitano di tanto in tanto lanciava occhiate amichevoli, già del tutto indifferente nei confronti del fuochista, addirittura seccato, tirava fuori un taccuino e, preso ovviamente da ben altri problemi, andava con lo sguardo dal taccuino a Karl e viceversa.

«Ma lo so», disse Karl, che faticava a contenere il flusso di parole del fuochista rivolte contro di lui, e tuttavia malgrado il litigio gli riservava ancora un sorriso amichevole, «ha ragione, ha ragione, non ne ho mai dubitato». Per paura di ricevere dei colpi avrebbe voluto tenergli le mani che si agitavano per l'aria, o piuttosto avrebbe voluto spingerlo in un angolo per sussurrargli qualche parola tranquillizzante che nessun altro avrebbe dovuto sentire. Ma il fuochista era fuori di sé. Karl ora cominciava già persino a trarre qualche conforto dall'idea che all'occorrenza il fuochista, con la forza della sua disperazione, potesse aver ragione di tutti e sette gli uomini presenti. Comunque sulla scrivania, come notò con un'occhiata, c'era un dispositivo con una grande quantità di pulsanti elettrici, e bastava appoggiarvi una mano per far ammutinare tutta la nave, con i suoi corridoi pieni di uomini ostili.

Ad un tratto il signore così indifferente con il bastoncino di bambù si avvicinò a Karl e a voce non troppo alta, ma che sovrastava decisamente tutte le grida del fuochista, chiese: «Ma lei, come si chiama?». In quel momento, come se qualcuno dietro la porta avesse aspettato queste precise parole, si sentì bussare. L'inserviente guardò il capitano, questi annuì. Quindi l'inserviente si diresse verso la porta e l'aprì. Fuori, con indosso una vecchia giubba della guardia imperiale, c'era un uomo di media statura, che non sembrava molto adatto a lavorare alle macchine, ed era proprio...

Schubal. Se Karl non l'avesse capito dagli occhi di tutti, che esprimevano una certa soddisfazione, da cui nemmeno il capitano era immune, l'avrebbe capito con spavento dal fuochista, che strinse i pugni con le braccia tese come se questa stretta fosse la cosa più importante per lui, cui era pronto a sacrificare tutto ciò che possedeva. In quel gesto c'era tutta la sua forza, anche quella che comunque lo sosteneva.

Ed eccolo dunque il nemico, felice e contento in abito di parata, con un libro contabile sotto il braccio, probabilmente i ruolini di paga e i certificati di lavoro del fuochista, e ora guardava negli occhi uno per uno ammettendo francamente che voleva anzitutto rendersi conto dello stato d'animo di ognuno. E i sette erano già tutti dalla sua parte, poiché anche se prima il capitano aveva avuto qualche obiezione nei suoi confronti o l'aveva soltanto presa a pretesto, dopo il fastidio arrecatogli dal fuochista gli sembrava che non ci fosse proprio più nulla da ridire su Schubal. Con un uomo come il fuochista non si poteva mai essere troppo severi, e se a Schubal si poteva rimproverare qualcosa, era il fatto di non essere riuscito col tempo a vincere la caparbietà del fuochista in modo che questi oggi non avesse osato presentarsi al capitano.

Forse si poteva ancora sperare che la messa a confronto tra il fuochista e Schubal non avrebbe mancato di produrre, anche davanti agli uomini, il debito effetto che avrebbe prodotto dinanzi a un tribunale superiore, poiché, anche se Schubal sapeva fingere bene, probabilmente non avrebbe potuto reggere sino alla fine. Un rapido balenare della sua cattiveria sarebbe bastato perché quei signori se ne rendessero conto, a questo avrebbe provveduto Karl.

Conosceva già all'incirca l'acume, le debolezze, gli umori di ognuno di loro, e da questo punto di vista il tempo trascorso lì sinora non era perduto. Se solo il fuochista fosse stato più padrone di sé, ma sembrava del tutto incapace di lottare. Se gli avessero messo davanti Schubal, avrebbe potuto riempire di pugni quel cranio. Ma di fare qualche passo per avvicinarsi a lui, già non era più capace. Perché Karl non aveva previsto quello che era così facile prevedere, che alla fine Schubal sarebbe comparso, se non per sua iniziativa, comunque chiamato dal capitano? Perché durante il tragitto non aveva concertato un preciso piano d'attacco con il fuochista, anziché, come avevano fatto in realtà, entrare del tutto impreparati là dove avevano visto una porta? E chissà se il fuochista era ancora in grado di parlare, di dire sì e no, come sarebbe stato necessario nel contraddittorio, imminente soltanto nel migliore dei casi? Stava lì a gambe larghe, con le ginocchia tremanti, la testa un po' all'insù e l'aria che circolava nella bocca aperta come se i suoi polmoni avessero smesso di funzionare.

Comunque Karl si sentiva forte e lucido come forse non si era mai sentito a casa sua. Se i suoi genitori avessero potuto vedere come lui in un paese straniero aveva difeso il bene davanti a persone importanti, e anche se non l'aveva ancora portato alla vittoria, come si stava preparando per l'ultima battaglia! Avrebbero mutato parere a suo riguardo? L'avrebbero messo a sedere tra loro e l'avrebbero lodato? L'avrebbero guardato almeno una volta negli occhi, pieni di devozione per loro? Domande dubbie, e il momento meno adatto per porle! «Sono venuto perché credo che il fuochista mi attribuisca certe disonestà. Una ragazza della cucina mi ha detto di averlo visto mentre si dirigeva qui. Signor capitano e voi signori, sono pronto a confutare qualsiasi accusa in base ai miei documenti, all'occorrenza in base a dichiarazioni di testimoni imparziali e non influenzati, che sono in attesa dietro la porta». Così parlò Schubal. Era senz'altro il discorso chiaro di un uomo, e dal cambiamento d'espressione degli astanti si sarebbe potuto credere che riudissero suoni umani per la prima volta dopo molto tempo. Naturalmente non notarono che anche questo bel discorso aveva punti oscuri. Perché la prima parola che gli era venuta in mente era «disonestà»? Forse si poteva accusarlo a questo riguardo, anziché a riguardo delle sue parzialità nazionali? Una ragazza della cucina aveva visto il fuochista dirigersi verso l'ufficio e Schubal aveva capito subito? Non era forse il senso di colpa ad aguzzargli l'ingegno? E aveva anche portato subito i testimoni e affermava che erano imparziali e non influenzati? Truffa, nient'altro che truffa! E quei signori lo tolleravano e lo trovavano anche un comportamento corretto? Perché aveva lasciato passare tanto tempo tra l'avviso della ragazza di cucina e il suo arrivo in ufficio? Ma per nessun altro motivo se non che il fuochista stancasse i signori al punto da far loro perdere a poco a poco la chiara capacità di giudizio, proprio quello che Schubal doveva temere. E poi, essendo senz'altro da tempo dietro la porta, non aveva forse bussato soltanto nel momento in cui, dopo la domanda marginale di quel signore, poteva sperare che il fuochista fosse ormai liquidato?

Era tutto chiaro, e in fondo anche Schubal esponeva i fatti con una certa riluttanza, ma a quei signori bisognava dimostrarlo in un altro modo, ancora più tangibile. Bisognava scuoterli. Presto quindi, Karl, sfrutta almeno il tempo, prima che entrino i testimoni a rimescolare tutto!

Ma il capitano interruppe con un cenno Schubal, che subito si spostò di fianco - poiché il suo problema sembrava rimandato per il momento - e cominciò un discorso sottovoce con l'inserviente, che gli s'era subito avvicinato, durante il quale non mancarono occhiate di lato dirette al fuochista e a Karl, come pure gesti della mano più che eloquenti. Nel frattempo sembrava che Schubal stesse provando il suo prossimo discorso.

«Non voleva chiedere qualcosa al ragazzo, signor Jakob?» chiese il capitano nel silenzio generale al signore con il bastoncino di bambù.

«Certo», rispose questi, ringraziando con un piccolo inchino per l'attenzione. E ancora una volta chiese a Karl:

«Come si chiama lei?».

Karl, che credeva che fosse nell'interesse del problema più importante liquidare in fretta la domanda imprevista dell'ostinato interrogatore, rispose brevemente, senza prima esibire il passaporto, com'era sua abitudine, dato che avrebbe dovuto cercarlo: «Karl Rossmann».

«Ma», disse il signore che rispondeva al nome di Jakob, e subito fece un passo indietro sorridendo in modo quasi incredulo. Anche il capitano, il capocassiere, l'ufficiale di bordo, sì, persino l'inserviente mostrarono un incredibile stupore all'udire il nome di Karl.

Soltanto i funzionari del comando portuale e Schubal si comportarono con indifferenza.

«Ma», ripeté il signor Jakob, avvicinandosi a Karl con un'andatura lievemente rigida, «allora sono tuo zio Jakob, e tu sei il mio caro nipote. L'ho sospettato per tutto questo tempo!» disse rivolto al capitano prima di abbracciare e di baciare Karl, che lasciò avvenire tutto in silenzio.

«E lei, come si chiama?» chiese Karl, una volta lasciato libero, a dire il vero in modo molto gentile ma del tutto indifferente, e si sforzò di pensare alle conseguenze che questo fatto nuovo poteva avere per il fuochista. Per il momento nulla lasciava credere che Schubal potesse trarne vantaggio.

«Giovanotto, cerchi di rendersi conto della sua fortuna», disse il capitano, pensando che la domanda di Karl potesse ferire la dignità nella persona del signor Jakob, il quale nel frattempo si era accostato alla finestra, evidentemente per non dover mostrare agli altri il viso agitato, che asciugava anche con un fazzoletto. «È il senatore Edward Jakob, che si è fatto riconoscere da lei come suo zio. Ormai l'aspetta una brillante carriera, contro tutte le sue precedenti aspettative. Cerchi di capirlo come meglio può in questo primo momento, e si domini!».

«È vero che ho uno zio Jakob in America», disse Karl rivolto al capitano, «ma se ho capito bene, Jakob è il cognome del senatore».

«È così, infatti», disse il capitano in tono grave.

«Ebbene, mio zio Jakob, che è il fratello di mia madre, si chiama Jakob ma di nome, mentre naturalmente il suo cognome dovrebbe essere uguale a quello di mia madre, che è una Bendelmayer di nascita».

«Signori!», esclamò il senatore, che si era ripreso, riavvicinandosi a loro dal suo posto accanto alla finestra con aria lieta, in seguito alla spiegazione di Karl. Tutti, a eccezione dei funzionari portuali, scoppiarono a ridere, alcuni come fossero commossi, altri in modo inesplicabile. «Eppure non ho detto niente di tanto ridicolo», pensò Karl.

«Signori», ripeté il senatore, «contro la mia e la vostra volontà state assistendo a una piccola scena familiare, e quindi non posso esimermi dal darvi una spiegazione, poiché, come credo, soltanto il signor capitano» - questa menzione fu seguita da un reciproco inchino -«è al corrente di tutto».

«Ora però devo proprio far attenzione a ogni parola», si disse Karl, e si rallegrò quando, guardando di lato, notò che nei tratti del fuochista cominciava a ritornare la vita.

«In tutti i lunghi anni del mio soggiorno americano - certo qui la parola soggiorno non è la più adatta per il cittadino americano che io sono con tutto il cuore - in tutti questi lunghi anni, dunque, ho vissuto completamente separato dai miei parenti europei, per motivi che in primo luogo non interessano, e in secondo luogo troppo mi rattristerebbe raccontare. Temo persino il momento in cui dovrò raccontarli al mio caro nipote, perché purtroppo non si potrà evitare una franca spiegazione a proposito dei suoi genitori e dei loro parenti».

«È mio zio, non c'è dubbio», si disse Karl tendendo gli orecchi, «probabilmente si è fatto cambiare il nome».

«Il mio caro nipote dunque è stato semplicemente tolto di torno - diciamo pure la parola che esprime la situazione reale - dai suoi genitori, così come si butta fuori dalla porta un gatto quando dà fastidio. Non intendo certo giustificare ciò che ha fatto mio nipote per essere punito in tal modo, ma la sua è una di quelle colpe che si è naturalmente portati a scusare».

«Questo non mi dispiace», pensò Karl, «ma non voglio che racconti tutto. Del resto non può neppure saperlo. E come potrebbe?».

«Infatti», proseguì lo zio, e chinandosi pian piano si appoggiò al bastoncino di bambù puntato dinanzi a lui, per cui in effetti riuscì a privare la storia dell'inutile solennità che altrimenti avrebbe senz'altro avuto, «infatti è stato sedotto da una cameriera, Johanna Brummer, una persona di trentacinque anni circa. Con la parola "sedotto" non voglio in alcun modo umiliare mio nipote, ma è difficile trovare un'altra parola così appropriata».

Karl, che si era già molto avvicinato allo zio, si girò per leggere l'impressione del racconto sul viso dei presenti. Nessuno rideva, tutti ascoltavano, pazienti e seri. Dopo tutto non si ride del nipote di un senatore alla prima occasione che si presenta. Piuttosto si poteva dire che il fuochista sorrideva a Karl, anche se in modo quasi impercettibile, il che anzitutto faceva piacere come segno di una sua ripresa, e poi era scusabile, dal momento che Karl in cabina aveva cercato in tutti i modi di tenere segreta quella che ora era diventata una storia così pubblica.

«Ora questa Brummer», proseguì lo zio, «ha avuto un figlio da mio nipote, un maschio sano, che è stato battezzato con il nome di Jakob, senz'altro a ricordo della mia modesta persona, la quale, sia pur nelle menzioni del tutto marginali di mio nipote, deve aver fatto una grossa impressione alla ragazza. Per fortuna, dico. Infatti, dato che i genitori per evitare le spese del mantenimento del bambino o qualsiasi altro scandalo che ricadesse su di loro - devo sottolineare che non conosco né le leggi del paese né l'eventuale condizione dei genitori - dato dunque che loro, per evitare le spese e lo scandalo hanno spedito il figlio, il mio caro nipote, in America con un equipaggiamento irresponsabilmente insufficiente, come si vede, il ragazzo, in balìa di se stesso, senza i prodigi e i miracoli che solo in America esistono ancora, si sarebbe rovinato già subito in un vicoletto del porto di New York, se quella cameriera, in una lettera a me indirizzata, che è giunta in mano mia l'altro ieri dopo lunghe peregrinazioni, non mi avesse raccontato tutta la storia di mio nipote, aggiungendo la descrizione del personaggio e, cosa molto ragionevole, anche il nome della nave. Se avessi voluto intrattenervi, signori miei, avrei potuto leggervi qualche punto di questa lettera». A questo punto trasse di tasca due enormi fogli di carta da lettera coperti di una scrittura fitta e li fece sventolare. «Sicuramente farebbe il suo effetto, perché è scritta con una furbizia un po' semplice, anche se sempre con buone intenzioni, e con molto amore per il padre del bambino. Ma non voglio né trattenervi più di quanto sia necessario per chiarire le cose, né ferire forse fin dall'inizio i sentimenti che può ancora nutrire mio nipote, il quale per sua conoscenza può leggere la lettera, se vuole, nella quiete della sua stanza che già lo aspetta».

Karl però non provava nessun sentimento per quella ragazza. Nel confuso ricordo di un passato che impallidiva sempre più, lei era seduta in cucina accanto alla credenza sul cui piano appoggiava il gomito. Lo guardava, quando talvolta entrava in cucina a prendere un bicchier d'acqua per suo padre o a sbrigare qualche incarico per sua madre. A volte in quella posizione scomoda a fianco della credenza scriveva una lettera e traeva ispirazione dal viso di Karl. A volte si copriva gli occhi con la mano, e allora non c'era discorso che potesse sentire. A volte s'inginocchiava nella sua stanzetta angusta vicino alla cucina e pregava rivolta verso una croce di legno; e allora Karl, passando, la osservava con un certo timore dalla fessura della porta semiaperta. A volte correva per la cucina e si ritraeva ridendo come una strega quando Karl le capitava tra i piedi. A volte chiudeva la porta della cucina dopo l'ingresso di Karl e teneva la mano sulla maniglia finché lui non chiedeva di andarsene. A volte prendeva cose che lui non si sognava di volere e gliele cacciava in mano in silenzio. Ma una volta disse «Karl», e con smorfie e sospiri condusse il ragazzo, pieno di stupore per la novità inaspettata, nella sua stanzetta, chiudendo la porta. Gli si aggrappò al collo fino a soffocarlo, e mentre lo pregava di spogliarla, in realtà fu lei a spogliarlo e lo fece stendere nel suo letto, come se da quel momento non volesse cederlo più a nessuno e volesse accarezzarlo e curarsi di lui sino alla fine del mondo. «Karl, mio Karl!» gridava, come se vedendolo volesse confermare a se stessa che lo possedeva, mentre lui non riusciva a vedere niente e si sentiva a disagio tra tutte quelle lenzuola e coperte calde che lei sembrava aver ammucchiato apposta per lui. Poi, a sua volta, gli si stese accanto e cercò di farsi raccontare qualche segreto, ma lui non riuscì a raccontarle nulla e lei si arrabbiò, o forse scherzava, ascoltò il battito del suo cuore, gli offrì il suo petto per fargli ascoltare i suoi battiti senza però poter indurre arl a fare altrettanto, premette il suo ventre nudo contro il corpo di lui, frugò con la mano tra le sue gambe, in modo così disgustoso che Karl agitò la testa fuori dai cuscini, poi spinse il ventre più volte contro di lui - era come se fosse diventata una parte di lui, e forse per questo motivo lo aveva colto un terribile bisogno d'aiuto. Alla fine, dopo molte sollecitazioni a rivedersi da parte di lei, era tornato piangendo nel suo letto. Questo era stato tutto, ma lo zio sapeva farne una gran storia. E così la cuoca aveva ancora pensato a lui e aveva informato lo zio del suo arrivo. Era stato un bel gesto da parte sua, e forse un giorno l'avrebbe ricompensata.

«E ora», esclamò il senatore, «voglio sentire sinceramente da te se sono tuo zio o no».

«Sei mio zio», disse Karl baciandogli la mano e ricevendo in compenso un bacio sulla fronte. «Sono molto contento di averti incontrato, però sbagli se credi che i miei genitori parlino male di te. Ma anche a parte questo, nel tuo discorso c'era qualche errore, voglio dire, credo che in realtà non tutto sia andato così. Certo da qui non puoi giudicare i fatti con precisione, e inoltre credo che non sia molto importante se i signori sono stati informati con una certa imprecisione nei dettagli di una storia che per loro non può essere di grande interesse».

«Ben detto», replicò il senatore, poi condusse Karl davanti al capitano visibilmente partecipe e chiese: «Non ho uno splendido nipote?».

«Signor senatore», disse il capitano con un inchino tipico soltanto delle persone formate a una scuola militare, «sono felice di aver conosciuto suo nipote. Per la mia nave è un onore particolare essere stata il teatro di un simile incontro. Ma il viaggio sull'interponte è stato senz'altro molto duro, già, non si sa mai chi si trasporta. Facciamo tutto il possibile per rendere più confortevole il viaggio ai passeggeri d'interponte, molto di più ad esempio delle linee americane, ma certo non siamo ancora riusciti a far sì che questo viaggio diventi un piacere».

«Io non ne ho sofferto», disse Karl.

«Non ne ha sofferto!» ripeté il senatore con una risata.

«Temo soltanto che la mia valigia sia...» - e in quel momento ricordò tutto quello che era successo e tutto quello che ancora bisognava fare, si guardò attorno e vide che tutti i presenti, muti per l'attenzione e lo stupore, avevano ripreso i loro posti e tenevano gli occhi fissi su di lui. Soltanto i funzionari portuali, per quanto si poteva vedere dai loro visi severi, soddisfatti di sé, manifestavano il rincrescimento di essere venuti in un momento così inopportuno, e l'orologio da tasca che si erano messi davanti probabilmente per loro era più importante di tutto ciò che avveniva e che forse poteva ancora avvenire in quella stanza.

Stranamente, il primo a esprimere la sua partecipazione dopo il capitano fu il fuochista. «Mi congratulo con lei di cuore», disse, e strinse la mano a Karl, volendo esprimere con ciò anche una certa ammirazione. Quando poi fece per rivolgersi col medesimo discorso anche al senatore, questi si tirò indietro, come se il fuochista stesse oltrepassando i suoi limiti, e il fuochista desistette subito.

Ma gli altri capirono che cosa c'era da fare, e fecero subito una gran confusione attorno a Karl e al senatore.

Così avvenne che Karl ricevette congratulazioni persino da Schubal, le accettò e lo ringraziò. Da ultimi, nella calma che si era ristabilita, si avvicinarono i funzionari portuali e dissero due parole in inglese, il che fece un'impressione piuttosto comica.

Per gustare ancor più la sua gioia, il senatore era in vena di ricordare a se stesso e agli altri alcuni episodi secondari, cosa che naturalmente non soltanto fu tollerata, ma anche accolta da tutti con interesse. Quindi fece notare che aveva preso nota nel suo taccuino dei tratti più evidenti di Karl, menzionati nella lettera della cuoca, per potersene servire al momento opportuno. Ora, durante la insopportabile chiacchierata del fuochista, al solo scopo di distrarsi aveva preso il taccuino e quasi per gioco aveva cercato di confrontare le osservazioni della cuoca, non proprio esatte dal punto di vista tecnico, con l'aspetto di Karl. «E così si trova il proprio nipote!» concluse in un tono come se si aspettasse altre congratulazioni.

«Che ne sarà ora del fuochista?» chiese Karl senza curarsi dell'ultimo racconto dello zio. Nella sua nuova posizione credeva anche di poter dire tutto ciò che pensava.

«Il fuochista avrà quello che si merita», disse il senatore, «e quello che sembra opportuno al capitano. Credo che del fuochista ne abbiamo più che abbastanza, e ognuno dei signori qui presenti è senz'altro d'accordo con me».

«Ma non è questo il punto, in un problema che riguarda la giustizia», disse Karl. Si trovava tra lo zio e il capitano, e credeva, forse influenzato da questa posizione, di tenere la situazione in pugno.

E tuttavia sembrava che il fuochista non avesse più speranze per sé. Teneva le mani mezzo infilate nella cintura dei pantaloni, che con i suoi movimenti scomposti ora era visibile insieme alla striscia di una camicia fantasia. Ma la cosa non lo preoccupava minimamente; aveva raccontato tutte le sue pene, ora potevano anche vedere i pochi stracci che indossava e poi l'avrebbero portato via. Immaginò che l'inserviente e Schubal, in quanto erano i due di rango inferiore, gli avrebbero usato quest'ultima gentilezza. Allora Schubal avrebbe avuto la sua pace e non sarebbe più stato indotto alla disperazione, come aveva affermato il capocassiere. Il capitano avrebbe potuto assumere soltanto rumeni, ovunque avrebbero parlato solo rumeno e forse tutto sarebbe andato meglio davvero. Nessun fuochista sarebbe andato più a cianciare alla cassa principale, avrebbero ricordato con un certo piacere solo la sua ultima chiacchierata, poiché, come aveva dichiarato espressamente il senatore, aveva dato adito al riconoscimento del nipote. Del resto in precedenza questo nipote aveva cercato spesso di essergli utile e quindi gli aveva già ricambiato più che a sufficienza il suo servizio durante il riconoscimento; ora al fuochista non veniva neppure in mente di pretendere ancora qualcosa da lui. E poi, anche se era il nipote del senatore, non era certo un capitano, e dalla bocca del capitano sarebbe uscito alla fine il giudizio negativo. Seguendo il suo pensiero, il fuochista cercava di non guardare neanche verso Karl, ma purtroppo in quella stanza di nemici non c'era altro luogo neutrale per i suoi occhi.

«Non fraintendere la situazione», disse il senatore a Karl, «può anche trattarsi di un problema di giustizia, ma al contempo è anche un problema di disciplina. Entrambi i problemi, e il secondo in particolare, sono soggetti al giudizio del capitano».

«Così stanno le cose», mormorò il fuochista. Coloro che riuscirono a sentire, sorrisero con un certo stupore.

«Inoltre abbiamo già talmente intralciato il capitano nelle sue mansioni, senz'altro più che numerose giusto all'arrivo a New York, che per noi è tempo di lasciare la nave, anche per non fare un caso di questa lite da poco tra due macchinisti con la nostra intromissione del tutto inutile. Capisco peraltro il tuo modo d'agire, caro nipote, ma proprio questo mi dà il diritto di portarti via di qui quanto prima».

«Farò subito calare una scialuppa per lei», disse il capitano, senza opporre, con stupore di Karl, neanche la minima obiezione alle parole dello zio, che senza dubbio potevano essere intese come un'autoumiliazione da parte di quest'ultimo. Il capocassiere corse a precipizio alla scrivania e telefonò l'ordine del capitano all'ufficiale di coperta.

«Il tempo stringe, d'accordo», si disse Karl, «ma non posso fare qualcosa senza offendere tutti. Non posso lasciare lo zio adesso che mi ha appena ritrovato. Il capitano è gentile, certo, ma questo è tutto. La sua gentilezza finisce quando subentra la disciplina, e lo zio ha reso pienamente il suo pensiero. Con Schubal non voglio parlare, mi dispiace persino di avegli dato la mano. E tutti gli altri qui non contano».

Immerso in questi pensieri si avvicinò lentamente al fuochista, gli tolse la mano destra dalla cintura e la tenne come per gioco nella sua.

«Perché non dici niente?» chiese. «Perché ti fai andar bene tutto?».

Il fuochista si limitò ad aggrottare la fronte, come se cercasse l'espressione giusta per ciò che aveva da dire. Poi abbassò gli occhi sulla mano di Karl e sulla sua.

«Hai subìto più torti di qualsiasi altro su questa nave, ne sono certo». E Karl intrecciò le sue dita con quelle del fuochista, che si guardò attorno con occhi splendenti, come se provasse una grandissima gioia per cui però nessuno poteva aversene a male.

«Ma tu devi tener testa, dire sì e no, altrimenti la gente non può indovinare la verità. Devi promettermi che mi obbedirai, perché io, ho motivo di temere, non potrò più aiutarti». E Karl, baciando la mano del fuochista, si mise a piangere, e prese quella mano screpolata, quasi senza vita, e se la premette contro le guance come fosse un tesoro cui si deve rinunciare. Ma ecco che lo zio senatore era già al suo fianco e lo portava via, sia pure senza quasi fargli pressione.

«Sembra che il fuochista ti abbia stregato», disse e lanciò un'occhiata d'intesa al capitano sopra la testa di Karl.

«Ti sei sentito abbandonato, hai trovato il fuochista e ora gli sei grato, questo è lodevole. Ma non esagerare, se non altro per riguardo a me, e cerca di capire la tua posizione».

Davanti alla porta d'un tratto ci fu un gran chiasso, si sentirono grida, sembrava persino che qualcuno fosse spinto brutalmente contro la porta. Entrò un marinaio, piuttosto in disordine, con un grembiule da cameriera legato attorno alla vita. «C'è gente là fuori», esclamò, e dette una gomitata per aria come se fosse ancora nella mischia. Infine riacquistò la sua calma e stava per fare il saluto al capitano, ma in quel momento si accorse del grembiule, lo strappò, lo gettò a terra e gridò: «Ma è disgustoso, mi hanno messo un grembiule da cameriera». Poi però batté i tacchi e fece il saluto. Qualcuno tentò di ridere, ma il capitano disse severo: «Questo è quel che si chiama buon umore. Chi c'è là fuori?».

«Sono i miei testimoni», disse Schubal facendosi avanti, «chiedo umilmente scusa per il loro contegno sconveniente. Quando gli uomini hanno finito la traversata, a volte si comportano come matti».

«Li chiami subito dentro!» ordinò il capitano, e rivolgendosi quindi al senatore disse in tono cortese, ma sbrigativo: «Abbia ora la compiacenza, illustre senatore, di seguire con suo nipote questo marinaio che la condurrà alla scialuppa. Non è certo necessario che le dica quale piacere e quale onore siano stati per me conoscerla di persona, signor senatore. Mi auguro soltanto di aver presto l'occasione di poter riprendere con lei, signor senatore, il nostro discorso interrotto sulla condizione della marina americana, e di poter essere ancora interrotti in modo piacevole come oggi».

«Per il momento mi basta questo nipote», disse lo zio ridendo. «E ora la ringrazio di cuore per la sua gentilezza e la saluto. Del resto non è detto che noi» - e strinse a sé Karl con affetto -,«durante un nostro prossimo viaggio in Europa non possiamo stare più a lungo con lei».

«Mi farebbe molto piacere», disse il capitano. I due uomini si strinsero la mano, Karl riuscì appena a porgere la sua mano in silenzio al capitano, perché costui era già assorbito dalle quindici persone circa che stavano entrando guidate da Schubal, a dire il vero un po' confuse ma sempre molto rumorose. Il marinaio chiese al senatore di poterlo precedere, quindi fece cenno agli altri di scostarsi per lui e per Karl, che passarono agevolmente tra gli inchini di tutti.

Sembrava che questa gente, peraltro bonaria, prendesse la lite tra Schubal e il fuochista come un divertimento, il cui lato ridicolo non cessava neppure davanti al capitano. Tra costoro Karl notò anche Line, la ragazza della cucina, la quale, salutandolo allegramente, si stava legando attorno alla vita il grembiule gettato via dal marinaio, che era il suo.

Sempre seguendo il marinaio, lasciarono l'ufficio e svoltarono in un piccolo corridoio, che dopo pochi passi li condusse a una porticina, da cui per una scaletta scesero nella scialuppa pronta per loro. I marinai della scialuppa, in cui la loro guida saltò con un solo balzo, si alzarono e fecero il saluto. Il senatore stava giusto esortando Karl a scendere con cautela, quando lui, ancora sul primo gradino, scoppiò in un pianto dirotto. Il senatore fece scivolare la mano destra sotto il mento di Karl, lo strinse a sé con forza e lo accarezzò con la mano sinistra. Così scesero lentamente gradino per gradino ed entrarono allacciati nella scialuppa, dove il senatore scelse un buon posto per Karl proprio davanti a lui. A un suo cenno i marinai si staccarono dalla nave e subito si misero a remare a pieno ritmo. A pochi metri di distanza dalla nave Karl vide con sorpresa che si trovavano proprio dal lato della nave su cui davano le finestre della cassa principale. Tutte e tre le finestre erano occupate da testimoni di Schubal che salutavano e facevano cenni cordiali, anche lo zio ringraziò e un marinaio riuscì persino a inviare un bacio con la mano senza interrompere il ritmo della remata.

Era proprio come se il fuochista non esistesse più. Karl fissò a lungo negli occhi lo zio, le cui ginocchia erano quasi a contatto con le sue, e fu colto dal dubbio che quest'uomo potesse mai sostituire il fuochista per lui. E lo zio evitò il suo sguardo e si mise a guardare le onde che cullavano la loro scialuppa.


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