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Kafka sulla spiaggia (2002, tit. or. Umibe no Kafuka, ma pubblicato in Italia nel 2008 da Einaudi con la traduzione di Giorgio Amitrano) è uno di quei romanzi - della fase recente (L'uccello che girava le viti del mondo, La fine del mondo e il paese delle meraviglie) - nei quali l'autore Murakami Haruki intreccia vicende in apparenza indipendenti per costruire un mondo tutto nuovo. Il libro gorgoglia di storie, di personaggi indimecabili e di sequenze che rimangono impresse (qualcuna magari anche contro la volontà del lettore, come accade alle pagine in casa di "Johnnie Walker"). Il tutto è, per così dire, arrangiato in modo che al personaggio principale sia lasciato ampio spazio per esprimersi, per crescere e maturare. Sia chiaro: Tamura Kafka alla fine del romanzo non sembra troppo diverso rispetto all'inizio, la sua "formazione" non è accademica né spirituale: piuttosto, è come se Murakami avesse scelto di concedere questo spazio-vacanza al ragazzo, un attimo di sospensione dalla realtà dove tutto è possibile e i più diversi generi letterari si fondono per creare quell'atipico - e insieme riconoscibilissimo - tipo narrativo che è il romanzo di Murakami, appunto.
Sotto questo aspetto, si noterà l'alternanza di io narrante - che parla al presente - e racconto in terza persona al passato, che non crea solo due distinti serbatoi di vicende alle quali attingere per un intreccio che avvince (anche se la lettura delle oltre cinquecento pagine di Kafka sulla spiaggia è magnetica e molto rapida). Il sospetto, piuttosto, è che Murakami voglia anche smontare l'assolutezza della prima persona attraverso un inquietante dialogo a singhiozzo con un "tu" che scivola troppo spesso nel "lui"; ma si ottiene anche che l'autore ridimensiona l'immagine del narratore "onnisciente", ovvero di quell'invasiva e impicciona terza persona che ancora oggi ci rasserena molto sugli esiti della storia e su una pacifica ricomposizione di ciò che appare fuori posto. In questa instabilità tra tempi e persone c'è spazio per i personaggi di trovare il proprio angolo di silenzio e di mistero e in primo piano rimane la storia.
Una storia, va detto, nella quale perdurano diversi punti oscuri anche a lettura completata... o forse con il passare degli anni il dosaggio di speranza e fatalismo fa sì che il lettore conservi dentro di sé le domande sull'effettivo svolgimento di molti fatti, rassegnandosi o meno all'assenza di spiegazioni (magari fantastiche, ma) pur sempre accettabili. La girandola dei personaggi - oltre a quelli già citati, la splendida signora Saeki con il suo aiutante Oshima, l'affettuosa e distante Sakura e l'irresistibile autotrasportatore Hoshino, per non parlare dei gatti e del ragazzo-corvo - vortica in modo che tutto confluisca nella storia, ma è come se i personaggi in sé non si incontrassero mai: si ha la sensazione, semmai, che solo le ombre, solo gli alter-ego riescano a guardarsi, diciamo così, faccia a faccia, come se tutto slittasse a una dimensione ulteriore.
In Kafka sulla spiaggia, le cose e le volontà, perfino i fatti, hanno una funzione chiara sul piano del meccanismo, ma non un significato. L'intima affabulazione tra i personaggi ci fa perdere in un orizzonte privato che sconosce senz'altro l'arroganza di qualche pretenzioso allegorismo universale ed è refrattario ad ogni folle sogno demiurgico, ma mira lo stesso a creare un mondo e ciò, lo riconosco, mi affascina moltissimo. L'autore giapponese, che negli ultimi anni è divenuto quasi un fenomeno di massa, è tutt'altro che ingenuo o estraneo alla tradizione (anzi, la sua dimestichezza con la cultura occidentale ce lo rende più vicino); conosce la filosofia greca e la tragedia ateniese, che torna a citare dopo lo splendido monologo pro-euripideo di Norwegian Wood, e parafrasa con intelligenza il celeberrimo incipit di Anna Karenina quando suggerisce che La felicità è sempre uguale, ma l'infelicità può avere infinite variazioni, come ha detto anche Tolstoj. La felicità è una fiaba, l'infelicità è un romanzo. Eppure credo che a far breccia nel cuore del lettore europeo sia altro: ovvero la continuità impalpabile tra immaginario e reale, tra descrizione minuziosa e quasi pedente del mondo in cui viviamo e l'incorporea radura onirica che ognuno di noi ospita in sé.
Tamura non cresce davvero e dialoga con il ragazzo chiamato Corvo; Oshima reca con sé la fortissima marca di un'ambiguita sessuale; Nakata parla di sé in terza persona e si rivolge ai gatti dando loro del lei; la signora Saeki si sdoppia e i nomi vengono cambiati ad animali e persone con estrema disinvoltura e consapevolezza onomastica perché nessuno di loro ha un punto di partenza e un punto d'arrivo, manca il momento in cui tutto si salda, a partire dalle persone, che nella loro esistenza anfibia ci restituiscono di più del loro vissuto e forse, più che rinunciare, sono impermeabili a una prepotente unitarietà. Perciò, pur senza fardelli psicanalitici, ma con un'insolita fame d'aria e di mitologia insolita negli scrittori contemporanei, diventa fondamentale qui la querelle sull'atto più a prima vista centrifugo che si possa immaginare, quello "fantastico", chiamiamolo così. Appunto una frase come quella di un dubbioso Tamura Kafka a un certo punto - alle prese con una dolorosa epifania - fornisce un prezioso indizio sull'interpretazione del romanzo:
Quello che io immagino potrebbe avere molta importanza in questo mondo.
Però ci vorrà un rimprovero del ragazzo chiamato Corvo - forse colmo di adolescenziale romanticismo, eppure toccante nella sua entusiasta ferocia - perché ciò diventi una chiave di lettura di Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki :
Tu hai paura del potere dell'immaginazione. E ancora di più, hai paura dei sogni. Hai paura della responsabilità che potrebbe cominciare nei sogni. Però non puoi evitare di dormire, e se dormi, i sogni verranno. Quando sei sveglio, puoi anche riuscire a controllare l'immaginazione. Ma non puoi mettere a tacere i sogni.
E sta a noi lettori farci carico - con l'eventuale empatia - del discrimine tra impotenza e volontà di intervenire sul mondo solitario in cui ci immergiamo.
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