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Kaki maturi.

Da Enricobo2
Kaki maturi.
Oggi un'amica mi ha portato una cassetta di kaki, maturi. Che meraviglioso, straordinario frutto. Forse quello che più simboleggia l'opulenza del tardo autunno. Quell'arancio carico, quel turgore così pieno che pare scoppiare, quella dolcezza esagerata che a qualcuno pare stucchevole e che invece è promessa piena di gioia serena. I kaki maturi sembrano fatti apposta per stimolare ricordi, per colorare di rosso vivo anche quelli apparentemente un po' tristi. La vecchia casa dei miei nonni a Valle San Bartolomeo, dove ho passato tutte le estati della mia infanzia era stata costruita addosso ad una casa ancora più vecchia di due prozii, fratello e sorella di mio nonno, entrambi non sposati e morti prima della guerra. Dovevano essere due figure ottocentesche, lui che faceva il cavallante e trasportava merci fino ad Alessandria; lei, una anziana signorina che badava a lui e all'orto. Più che altro hanno vissuto gli ultimi anni per i nipoti, mio padre e i suoi due fratelli che trattavano come figli. Quando se ne andarono la casa stava andando in rovina fino a quando lo zio Enrico, detto Bobetto, non so come mai, vi ci si stabilì riadattandola alla meglio. Una vita difficile la sua. Prima fece il poliziotto a Genova, poi un matrimonio frettoloso a Torino e difficoltà varie che lo convinsero a trasferirsi in America appena finita la guerra, invogliato dai racconti delle fortune facili di certi parenti della moglie. Facevano credo i macellai in Messico dalle parti di Campece se non ricordo male. 
Anche allora c'era questa maledizione dell'emigrazione forzata per sfuggire ad un paese poco generoso verso i suoi ragazzi. Vendettero i mobili all'incanto per comprare i biglietti del bastimento, forse aiutati un po' da mia nonna e partirono a cercare fortuna. Ma le cose non sono mai facili come te la raccontano. Qualche anno per cercare una strada, i parenti, che forse non avevano tutta quella fortuna che avevano millantato e che non li aiutarono più di tanto, fatto sta che dopo appena qualche anno se ne tornarono qui, dove, con l'aiuto del fratello più vecchio trovò lavoro in ospedale come operaio. Ma si sa che quando le cose sono difficili, tutto diventa storto e sbagliato, cominciarono i litigi furiosi, ormai con la moglie le cose non funzionavano più, così rimase solo a vivere in quella casa rattoppata dei prozii. Una vita solitaria e credo tristissima, ad accendersi la stufa con la legna spaccata prima di sera per riscaldare quelle notti nebbiose  e grige dei novembri alessandrini. Qualche sera alla SOMS a bere qualche bicchiere di troppo, ma mica più di tanto, ma sì sa nei paesi fanno presto ad attaccarti le etichette. Così me lo ricordo sempre con quello sguardo basso e gli occhi tristi e ingrugniti, con cui ti guardava quando così di rado portavo mio padre in Valle. Scambiava con lui qualche parola, ma poche, come chi è adattato ormai ad un vivere solitario e senza contatti umani. Sempre solo con un suo cagnolino che lo seguiva e che veniva chiamato anche lui Bobetto. 
Un tono ruvido e un po' scostante, ma solo all'apparenza però. Nel suo ultimo anno di vita, si muoveva poco attorno al cortile, dando un'occhiata all'orto ormai incolto in maggior parte. Era un novembre grigio e umido come questo, l'ultima volta che ci portai mio padre. Sterpi secchi e terra umida coperta di bruma. "Ti piacciono i kaki?". Mi prese per un braccio e mi portò sotto la grande pianta che stava in un angolo vicino alla casa, con una cassetta di legno chiaro. Io gli raccontavo di come era andata la mia laurea e del mio lavoro appena cominciato. Lui ascoltava in silenzio, ma leggevi sul suo viso con la barba un po' incolta e le rughe profonde di chi dorme male, una sorta di soddisfazione, forse perché per la prima volta uno della famiglia era arrivato fin lì. Ci mettemmo a raccoglierli assieme. Come erano grossi e di un arancio carico, maturi perfetti, talmente gonfi da dover essere maneggiati con attenzione perché non si spaccassero sotto il proprio stesso peso. Li deponevamo gli uni accanto agli altri. Mi ascoltò parlare per un po', poi alzandosi per tornare verso casa mi disse: "T'ei propi 'n fiò 'n gomba. Damm 5 liri per i kaki, ch'is regalu nenta, se no 'l porta ma'". Prese la monetina, poi richiuse la porta in silenzio mentre dal cielo grigio scendeva una umidità spessa che bagnava tutto in un attimo, lasciandoti solo un groppo in gola e la voglia di stringere attorno al collo il bavero del cappotto.
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