Una era sobria e minimal. L’altra piuttosto pacchiana e a dir poco barocca. Due tombe volute da due individui molto diversi: una bibliotecaria di nome Desirée rimasta vedova da poco di un giovanissimo biologo e Benny, un allevatore di vacche, orfano di padre e madre che, dopo la morte di quest’ultima, si ritrova a dover gestire l’intera azienda da solo. Sull’incontro di questi mondi opposti si basa il romanzo di Katarina Mazetti “Il tizio della tomba accanto”, pubblicato per la prima volta in Svezia nel 1998 e tradotto da Laura Cangemi per essere pubblicato, prima nel 2005 da Salani con il titolo “O me o muuh!” e, nel 2010, dalla Elliot. Avendo in mano l’’edizione più recente, e dopo aver letto le dichiarazioni della traduttrice riguardo il rispetto dell’originale, posso dire di aver fatto una buona scelta. In effetti non si capiscono certe decisioni della Salani, per esempio il cambio di titolo. È chiaro come questa modifica sia stata dettata da un motivo molto semplice: sfruttare il gioco di parole per avere una maggior presa sul lettore; ma non credo che questo possa bastare a giustificare la totale manipolazione di una parte così importante dell’opera. Oltretutto, avrei compreso la scelta (pur non condividendola) se il titolo fosse stato davvero poco accattivante, ma non mi sembra che sia questo il caso. Probabilmente l’autrice ci tiene a sottolineare l’importanza di come nasce la storia, e conta sull’effetto, senz’altro particolare, che suscita l’idea di un incontro al cimitero. Di sicuro incuriosisce un titolo che fa già presupporre qualcosa di profondo (mettendo in campo il tema della morte), ma che con la copertina ti indirizza a qualcosa di più leggero. E, in effetti, si tratta di un romanzo molto particolare che, con brio ed ironia, riesce a stemperare le problematiche di due vite segnate da esperienze difficili. Lei, dalla situazione familiare per nulla felice, con un marito che non ha mai compreso realmente e dei genitori ormai distanti, si barcamena tra libri e organizzazione di eventi per ragazzi nella biblioteca per cui lavora. Lui, rimasto orfano di due genitori che si amavano follemente, non riesce ad accettare la sua esistenza contadina trovandola, ormai, terribilmente vuota: «Una vita solitaria, senza famiglia né figli: forse risulta più tangibile proprio quando si è agricoltori, con un certo numero di ettari di terreno coltivabile e pure una fetta di bosco».
Questi due esseri provenienti da mondi del tutto diversi, dove potrebbero incontrarsi, se non in un luogo che rende tutti uguali, a dispetto di qualsiasi differenza sociale, come il cimitero? E forse sta qui la chiave di volta: per quanto possano trovare difficoltà nel comprendersi e venirsi incontro, i due protagonisti sanno che il loro amore va oltre lo “shock culturale”, come lo chiama Desirée. Una «piccola medusa slavata» e un «orso bruno» senza tre dita possono amarsi ed essere felici; a patto che si prenda in considerazione la possibilità di scendere a compromessi e si trovi un modo per adattarsi: una medusa non può vivere in un bosco e neanche un orso in mare aperto, ma lei potrebbe stare dentro una bacinella tra gli alberi e lui su un tronco galleggiante vicino la costa. Tuttavia vi sono molte circostanze che possono perturbare le scelte di una persona e cambiare il corso della vita. Una di queste è, nel nostro caso specifico, la malattia della migliore amica di Desirée, Märta, la quale aveva rappresentato fino ad allora l’àncora di salvezza della protagonista. Ed è proprio Märta, insieme ai genitori, ai colleghi e agli amici dei protagonisti a rendere il romanzo più concreto e vitale; alcuni di essi, poi, sono talmente ben presentati che fanno venire voglia di conoscerli. Mi riferisco sia all’amica di Desirée, ma anche ad Anita, cugina di Benny, ai rispettivi genitori, a Inez, a quell’antipatica di Violet. Con un linguaggio semplice ed uno stile sobrio, ma fine, l’autrice mette in fila, capitolo dopo capitolo, come una collana a due colori, le emozioni, le vite dei due protagonisti facendoli parlare, alternativamente, in prima persona. In tal modo la Mazetti riesce a dare al lettore una doppia visuale che fornisce la “terza dimensione” dei fatti narrati, andando oltre l’oggettività per scavare nelle viscere della relazione. Un piccolo appunto sarebbe da fare al come i due personaggi si “innamorano”, piuttosto banale, quasi un topos della letteratura rosa: l’incontro ha modalità alquanto buffe, specie leggendo le versioni fornite dai due narratori, ma la “scossa elettrica” che cambia tutto rimane qualcosa di piuttosto scontato. Per il resto, l’evoluzione del romanzo segue un’andatura gradevole, con delle pause qua e là, giusto per riprendere fiato, prima di reimmergersi nelle maglie della trama e rimanervi dentro, incastrati dal piacere della lettura.