Parlare di rocker maledetto o di batterista folle ha il sapore dello stereotipo, ma per tracciare il profilo di Keith Moon, storico batterista dei The Who dal 1964 (quando ancora si chiamavano The Detours, poi The High Numbers) fino al 1978, anno della morte ad appena 32 anni, non si può prescindere da questi clichè. Chiarendo che per Moon the Loon (il pazzo), come veniva chiamato nell’ambiente, la sregolatezza, la provocatorietà e la furia distruttiva non erano pose studiate per ricamarci sopra un personaggio e guadagnarsi le copertine dei tabloid, ma erano incise nel DNA stesso del musicista. Nato in una tranquilla famiglia benestante della zona di Wembley, già da piccolo diede segni di iperattività che lo portarono spesso ad atteggiamenti istrionici e ribelli, tanto da essere espulso dalla scuola a 15 anni. I genitori cercarono di incanalare il suo eccesso di energia nella musica, iscrivendolo in una banda come trombonista, ma venne ben presto allontanato, dato che trascurava la parte assegnata per lanciarsi in improponibili assoli. Ma l’incontro della vita era dietro l’angolo: dopo aver provato a suonare la batteria di un amico, piombato nell’ansia per le sorti del suo strumento avendo preso atto dell’irruenza barbarica di Keith, decise che la batteria sarebbe divenuta la ragione della sua vita. Così, convinti i genitori ad acquistargliene una, iniziò a suonare sui dischi dei grandi batteristi jazz e a prendere qualche rudimentale lezione. Il suo primo gruppo, The Beachcomber, si ispirava al Surf-rock dei Beach boys, sound al quale Moon rimase affezionato per tutta la vita.
Appena diciassettenne, saputo che i Detours, gruppo che andava per la maggiore nella nutrita scena Mod londinese, stavano facendo audizioni per il nuovo batterista, si presentò in abiti sgargianti. La furia con cui fece il suo provino, oltre a sfondare qualche pelle e spezzare le bacchette, non lasciò dubbi a Pete Townshend e soci: avevano trovato il batterista che stavano cercando. Per i successivi quattordici anni, Keith Moon fu protagonista dell’epopea dei The Who, caratterizzandoli col suo stile inimitabile, tecnicamente imperfetto, in affanno nel tenere il tempo, ma trasbordante in creatività ed energia e sorretto da un’innata, assoluta sensibilità musicale. Dopo quello del geniale leader chitarrista, il suo apporto fu il più determinante per scrivere una delle pagine più straordinarie della storia del rock, segnata da album pionieristici e germinali, ma capaci di accattivarsi le simpatie del pubblico; un’epopea costruita con performance memorabili nei più importanti eventi della stagione del Flower Power, da Monterey a Woodstock e all’Isola di Wight.
Nel gennaio del 1970, per sfuggire a un’aggressione da parte di un gruppo di teppisti con cui aveva avuto uno scontro in un pub, investì il suo autista e amico Neil Boland, provocandone la morte. Questo evento drammatico fece sprofondare Keith nella depressione, portandolo verso derive psicopatiche. Il batterista aumentò esponenzialmente il consumo di alcool e sostanze psicotrope e il suo atteggiamento si fece sempre più borderline e violento. Arrivò a minacciare la moglie con una pistola, quando lei andò via da casa con il figlio, ormai esausta delle escandescenze di Keith. Nel 1973, durante il tour promozionale di Quadrophenia, collassò sul palco dopo aver ingerito un mix di alcool e tranquillanti, costringendo Pete Townshend a chiamare un ragazzo del pubblico per suonare gli ultimi brani. Tentò la via solista, pubblicando nel 1975 Two sides of the moon, con scarsi risultati. Il 7 settembre del 1978, dopo una serata apparentemente tranquilla, ingurgitò un’eccessiva dose di farmaci prescritti per la terapia disintossicante e morì durante il sonno.
La breve vita di Keith Moon è ricca di aneddoti e leggende paradigmatiche di un’esistenza trascorsa nell’adesione più radicale al motto del Sex, drugs and rock’n'roll. Dalla distruzione rituale della batteria nel finale di My generation, mentre Pete faceva altrettanto con chitarra e amplificatori, in alcune occasioni resa ancora più devastante dall’utilizzo di esplosivo nella Gran cassa, come in un passaggio televisivo nel 1967 che terminò con un’eplosione, causando la temporanea sordità del chitarrista e il ferimento dello stesso batterista; all’altrettanto rituale devastazione delle camere d’albergo durante i tour, tanto da venire bollati come ospiti indesiderati da alcune prestigiose catene di hotel; alla macchina finita nella piscina dell’albergo dove festeggiava il suo ventunesimo compleanno, non è dato sapere con certezza se una Rolls o una Lincoln o una Cadillac; ai travestimenti istrionici e provocatori utilizzati non solo negli show live e televisivi, ma anche nelle scorribande notturne per i locali. Aldilà di questi eccessi comportamentali, resta un batterista istintivo, poco evoluto tecnicamente, ma dall’impressionante carica energica ed inventiva, pioniere nel personalizzare il drum-set e nel liberare la batteria dalle catene dell’accompagnamento ritmico in cui era confinata, per darle una dignità completa di strumento capace, al pari degli altri, di caratterizzare il sound, aprendo la strada ai grandi batteristi del rock.