A cura di:
Giovanni Sciuto
Il motivo per cui Keith Richards mi è sempre stato simpatico è che se non fosse il chitarrista dei Rolling Stones sarebbe sicuramente diventato un normalissimo tossico poco di buono che entra ed esce dalla galera con la stessa frequenza con cui io entro ed esco dall’Esselunga.
Un altro motivo fondamentale della simpatia che mi suscita questo grande musicista è che non ha mai nascosto di essere una persona come minimo refrattaria alle regole della società civile e questa è la ragione per cui ho deciso di leggere e recensire la sua autobiografia scritta a 4 mani con James Fox.
Per chi non lo sa Keith è nato e cresciuto in un sobborgo di Londra, Dartford, figlio unico di un operaio di origini irlandesi e di una donna con cui ha sempre mantenuto un profondissimo legame di affetto e tenerezza e, particolare non trascurabile, vicino di casa di un ragazzino dai lineamenti marcati figlio di un insegnante di ginnastica, tale Mike Jagger. Il libro parla di amicizie e personaggi più o meno raccomandabili (più meno che più) che hanno gravitato attorno alla band, spesso musicisti e artisti ma anche drogati, ladri e spacciatori (spesso tutte e cinque le cose assieme) con cui si sono sempre trovati benissimo, ma si sbaglia chi pensa che il protagonista sia un semplice debosciato che con qualche motivo azzeccato è riuscito ad arricchirsi e a diventare una star.
Keith parla della sua passione per la musica e mette in chiaro che prima di tutto lui è un bluesman e che la sua formazione viene dagli States (Elvis, Chuck Bery e Muddy Waters) e in particolar modo dalle magiche sponde del Missisipi e dai suoi suonatori di colore che hanno rappresentato una delle principali ispirazioni nelle prime turnee in America degli Stones. Il libro si concentra moltissimo sull’aspetto prettamente strumentale, sulla continua ricerca di nuovi suoni e nuove tecniche musicali (per esempio l’accordatura aperta in sol a cinque corde) e per chi, come me, non ha mai suonato nulla che non fosse il flauto alle medie, risulta un mondo tutto da scoprire. Questa nomea di musicista capellone, brutto sporco e cattivo (cosa mai contestata dal diretto interessato) è il suo marchio di fabbrica e anche uno dei motivi della sua popolarità, perché si vede lontano un miglio che non ha né la voglia né l’ipocrisia di apparire diverso da quello che semplicemente è, un grandissimo talento.
Ci sarebbe da scrivere un capitolo a parte invece per quanto riguarda la psichedelia e l’uso delle droghe, che segna la loro produzione a partire dalla metà dei sessanta (Jumpin’Jack Flash, Brown Sugar, Sister Morphine, tra le più famose), anche qui il protagonista racconta con totale candore le sregolatezze e le avventure che li porteranno a fughe, arresti e critiche da parte della buona società. E’ doverosa la parentesi abbastanza tetra sull’ammissione (parziale) di Keith che disse (poi negò, poi ritrattò) di essersi sniffato le ceneri del padre mescolate con della cocaina ma su questo preferirei soprassedere per questioni di buon gusto. Al di là di ciò, pensare che questo libro sia la classica operazione per fare il make up al protagonista ormai vecchiotto e quindi bisognoso di una bella ripulita (cosa diffusissima in Italia per altro) è totalmente fuorviante e il titolo (Life) già di per se non potrebbe essere più chiaro.
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