Un viaggio in una terra che a tanti occidentali pare così lontana e misteriosa, al fianco di un amico, alla ricerca delle proprie origini. Con che spirito sei partita per la Cambogia e con quali preconcetti?
Devo premettere che sono una viaggiatrice compulsiva, incosciente, curiosa e a volte un po’ matta quindi per me era un’occasione unica di andare in una nazione così lontana.
Non avevo nessun preconcetto, e non ho letto nemmeno guide o testi a riguardo. A me piace scoprire un luogo senza organizzarmi troppo.
Le uniche informazioni più accurate che avevo preso erano quelle mediche e alimentari su quali trattamenti era obbligatorio fare per non rischiare troppo sulla salute.
Ovvio che avevo però coscienza della portata emotiva di questo viaggio per Fabrice, il mio amico, ma ai suoi dubbi io rispondevo sempre con grandi sorrisi e forza di volontà.
Ero sicura che sarebbe stato un viaggio incredibile.
E che era ora che lui lo intraprendesse.
Quali aspetti ti hanno sorpresa di più, cosa ti ha dato dolore, cosa allegria? Soprattutto, cosa ti ha lanciato questo viaggio?
La cosa più bella della Cambogia e che non scorderò è proprio la gente.
Non ho mai conosciuto persone più gentili, delicate,
Tutti parlavano inglese quindi abbiamo potuto parlare e sentire le storie anche dei bambini.
Ovviamente è un paese molto povero quindi abbiamo assistito a scene che ti chiudono lo stomaco, le condizioni di vita in alcune zone sono terribili, il clima non aiuta e le migliaia di zanzare neppure, abbiamo visti bambini abbandonati per strada, bambini misteriosi che vivevano nella giungla, mutilati dalle mine ovunque. Quello che mi dava dolore era vedere come il peso di una vita in Cambogia sembra essere più leggero che in occidente.
Tutto si regge su equilibri fragilissimi. Una vita si può spezzare in un attimo ma a nessuno importa, mentre in occidente tutto sembra più importante. E questo mi faceva stare male, perché non è giusto.
L’essere umano inteso proprio come “essenza dell’umano” è lo stesso ovunque si vada. Nessuna vita vale più di un’altra.
Allegria? Beh i mercati!!! Io sono una appassionata di mercati e ci sono andata ovunque anche nei paesini più sperduti. Ma non ho mai visto tante mosche e tanta polvere insieme. E che odori.. Carni e pesci lasciati sotto il sole con poco ghiaccio vanno in putrefazione molto presto. Però ero troppo felice nel vedere tanti prodotti sconosciuti. E ci fermavamo sempre a mangiare le specialità (cotte) sul posto, non i grilli e i ragni certo! Ma le zuppe e le fritture erano deliziose. Alla fine è nelle botteghe dei mercati che si mangia meglio.
Cosa ha lasciato: un senso del sacro diverso. Io che non sono credente ho amato molto guardare i templi, le piccole statue, annusare gli incensi.
E in quei giorni è nato anche il pensiero di voler condividere il senso di morte e di dolore che ho visto nei volti di chi è stato ucciso durante il regime dei Khmer Rouge. Questo è una cosa che è difficile da dimenticare.
I disegni sono stati fatti sul posto o solo dopo? Se sì, cosa ha significato avere la matita come tramite tra te e quel che vivevi? Un diverso modo di guardare o un senso maggiore di responsabilità?
Una parte dei disegni è stata fatta sul posto, sopratutto quelli della gente, dei mercati e dei motorini. Purtroppo il clima non aiutava a rimanere seduta a disegnare, faceva troppo caldo e la china si asciugava subito.
Sul luogo mi è sembrato più facile raccogliere le testimonianze e i racconti delle persone.
Un’ altra parte dei disegni della mostra invece è stata creata basandosi su mie foto e su video.
Naturalmente i disegni fatti sul carnet durante il viaggio hanno un’immediatezza e portano con sé un preciso stato d’animo che quelli post non hanno.
La responsabilità l’ho messa tutta nei testi che accompagnano la mostra.
Dal tuo blog emerge la passione per la fotografia. Un mezzo diverso di mostrare, di proporre immagini, Dove la foto è più efficace per narrare e ricordare, e quando invece il disegno diventa maggiormente capace, o necessario?
Devo ammettere che cominciato a disegnare da poco, sono solo 4 anni, prima non avevo mai coltivato questa parte di me. E questo mi faceva molto soffrire.
Per compensare il mio desiderio di esprimermi in immagini fotografavo tanto. Tutto. Prima con una vecchia reflex e poi con una digitale.
Con la digitale ho iniziato anche ad aprirmi un blog, e da quel giorno è cambiato tutto.
Poi unire foto e disegni è venuto automatico.
La foto mi piace perché in un attimo racchiudi tutto, atmosfera, luce, odori, emozioni.
E’ stimolante prendere foto, crea piacere fisico sia nel farlo che nel guardarle.
E’ un antidepressivo per me.
Mentre disegnare è ancora un atto delicato, spesso mi pongo dubbi sulla qualità di quello che faccio, sul valore estetico e sulla non banalità.
Ma poi quando mi lascio andare, creo la giusta atmosfera attorno a me, metto una musica evocativa entro in trance e vado avanti per ore.
Il disegno è più facile per narrare, crea uno spazio dilatato in cui può entrare un racconto, un’intervista.
La foto ferma tutto, quindi può anche aiutare per esprimere in maniera più intensa un sentimento.
Khmer in questo senso unisce foto e disegni?
Come hai scelto cosa rappresentare in foto e cosa con i tuoi disegni? Come si integrano l’un l’altro?
La mostra sarà composta di tante foto e tanti disegni.
A me piace moltissimo lavorare con entrambi i mezzi e penso che i pezzi di graphic journalism più belli siano proprio basati sull’integrazione dei due.
Io non avrei potuto prescindere uno dall’altro.
Proprio perchè quando uno guarda o legge i disegni pensa che ricreino una realtà che non esiste.
Io ho messo foto anche molto dure perchè tutte quelle atrocità e quelle bellezze esistono davvero.
Le foto sono il mio occhio sulle cose, un occhio che non può ingannare o addolcire.
Alla fine del viaggio, cosa ha trovato il tuo compagno di viaggio tornando alle sue origini?
Questa è la sua risposta:
Questo viaggio in Cambogia mi ha dato una maggiore consapevolezza sulle mie origini, da dove vengo e chi sono. Mi ha anche aiutato a capire quanto sia stato fortunato ad essere stato adottato in un paese dove sono potuto crescere e rimanere vivo…
Mettendosi nei suoi panni avresti fatto la sua stessa scelta di intraprendere questo viaggio?
Si lo avrei fatto. So che Fabrice ha aspettato di trovare la persona giusta per partire.
Io sono una donna molto decisa e abbastanza forte e questo forse lo ha convinto che non doveva avere paura. In più siamo partiti anche con una grande dose di incoscienza.
Io forse però nei suoi panni sarei partita da sola.
Proprio per vivere anche con dolore e disorientamento un viaggio a ritroso.
Tra me a Fabrice poi sono io la vera investigatrice, credo che lui si sia costruito una bella armatura per non farsi troppo male.
Io ho ritrovato dopo 36 anni l’infermiera americana che si prese cura di lui i primi mesi.
E’ stato molto commovente scriverle.
Perche lei si ricordava con enorme affetto di lui, ha voluto vedere le sue foto.
Per come sono fatta io… andrei ancora più a fondo, fino al primo orfanotrofio dove fu trovato.. ma qui sarà soltanto Fabrice a decidere.
Io già ho fatto troppo e lo devo rispettare.
Parte del tuo lavoro è uscito su Animals, quindi in mostra, è prevista l’uscita sotto forma di libro?
No, devo dire di no è ancora troppo presto forse.
Ma è il mio obiettivo. Vorrei sviluppare questo argomento e ritornare in Cambogia a raccoglie molte altre interviste. Sai quando senti di essere legata profondamente a un tema. Ecco questo è il mio tema per ora.
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