Dando uno sguardo in rete, sembra che l’aver letto la graphic novel da cui Kick-Ass è stato tratto, funga da discriminante nell’apprezzare o meno questo film.
In generale, gli appassionati del comic detestano alcune scelte narrative della versione cinematografica, colpevoli di aver edulcorato una trama all’origine molto più dura, cinica e realistica, qual è quella della versione cartacea.
Purtroppo non ho letto il fumetto.
Ragion per cui quest’articolo si basa esclusivamente sulla fruizione del film. E solo su quello. Dal momento che non sono andato neppure in giro a documentarmi più di tanto.
Un solo dettaglio non mi è sfuggito e voglio proporvi subito, perché indice di un certo modo di fare le cose che personalmente apprezzo moltissimo. Il regista Matthew Vaughn ha girato il film da indipendente, raccogliendo i fondi necessari a una festa, dopo che il progetto venne rifiutato da tutte le case di produzione a cui era stato sottoposto. Alla fine, Kick-Ass è stato venduto alla Universal per una cifra superiore rispetto a quella chiesta in origine dal regista.
La saggezza dei gegni del marketting è tale da incantarmi.
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Protagonista è Aaron Johnson, che qui veste i panni dello sfigato, lo studente Dave Lizewski. Appassionato di fumetti, ignorato e sfottuto dalle ragazze, con amici tanto nerd quanto lui.
Dave decide di acquistare un costume, a suo dire una sorta di muta da sub giallo-verde, e di diventare un supereroe, ovvero combattere il crimine. Si ribattezza Kick-Ass e, da giustiziere mascherato, diviene non solo un fenomeno di costume, grazie alla cassa di risonanza di internet, ma causa anche, nel mondo reale, uno spostamento semantico del termine omonimo, kick-ass, che parte come dispregiativo, ovvero calci-in-culo e diviene, stando all’Urban Dictionary, something that’s really incredibly awesome, ossia qualcosa che è davvero incredibilmente attaente. In pratica un figo della madonna.
Ora, a parte questi miracoli del linguaggio, il film prende le mosse dal mero calcolo delle probabilità. Dave è un ragazzetto comune, un po’ moralista nelle sue scelte e nei suoi pensieri, che decide di trasformare sé stesso in un giustiziere mascherato perché è statisticamente possibile che qualcuno ci abbia pensato, e in ultima istanza, per soddisfare un senso di giustizia contro i soprusi e i criminali che, al contrario degli eroi, abbondano.
Due cose sono apprezzabili, in questa scelta narrativa. E, no, non mi sto riferendo al fatto di raddrizzare i torti della società, quanto alla stupidità attribuitale, composta di gente passiva e asservita a ciò che viene loro mostrato, attraverso internet o la televisione; che sia una rissa in un parcheggio, oppure un’esecuzione in diretta. E l’idea della nascita del supereroe, il suo battesimo del fuoco, che io ho trovato, pur nelle sue sfumature da commedia, simile a quel gran bel film che è Unbreakable.
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Il primo aspetto può sembrare scontato, ma non se si pensa al ribaltamento di prospettiva, che riequilibra il tutto. Da una società di repressi e passivi, di gentaglia egoista che assiste impassibile alla violenza si passa al contraltare: proprio grazie a quello stesso modo di vedere le cose, nasce il fenomeno Kick-Ass, con milioni di visualizzazioni dei suoi filmati su YouTube, e tutta una serie di merchandising legati alla sua immagine. Soldi che il protagonista non vedrà mai, perché fondamentalmente estraneo al sistema che, al contrario, continua ad autoalimentarsi di simboli e non di contenuti.
Il secondo aspetto è la genesi: Dave non nasce super-eroe, ma riceve anch’egli, seguendo lo schema più classico, la puntura del ragno, ovvero un incidente che lo rende un po’ speciale; innesti metallici per saldare le fratture multiple subite, che abbassano la soglia del dolore e lo rendono più resistente ai colpi.
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Allora, il bello di questa messinscena sta nella quotidianità dell’eroe. Tale non a causa delle abilità che possiede, ma proprio i quanto simbolo (egli risulta efficace, quindi, per la stessa ragione per la quale è apprezzato, la sua forma, il suo aspetto), che gli consente, dietro la maschera, per incoscienza o necessità, di interpretare un ruolo, di compiere azioni folli, quali penetrare in casa di un boss mafioso e minacciarlo di spezzargli le gambe. Una situazione dalla quale non se ne esce. La figura dell’eroe è quindi idealizzata, pur se mostrata sotto la luce quotidiana della cameretta in cui lui, adolescente preda degli ormoni, continua a masturbarsi.
Più fumettosi sono i personaggi di Big Daddy (Nicolas Cage) e Hit-Girls (Clhoe Moretz), rispettivamente papà ex-poliziotto (non si sa come, ricchissimo) e figlia undicenne addestrata come una specnaz. Il primo che ricalca il Batman degli anni ’60 di Adam West, sia nel costume (attualizzato e annerito), sia nelle pose assunte durante i combattimenti e la seconda, nella furia omicida e l’abilità con le armi, che tanto contrastano con la giovanissima età dell’attrice, un manga poco noto in Italia, Gunslinger Girl, basato sull’impiego da parte dei servizi segreti di giovanissime agenti impiegate come letali macchine di morte. Red Mist (Christopher Mintz-Plasse) riecheggia ancora una volta Unbreakable e la genesi stavolta del villain, la cui essenza non si discosta poi tanto da quella dell’eroe, ma che si vota al male per il sangue, secondo uno schema classicista, che voleva le colpe dei padri ricadere sui figli, anzi essere trasmesse come retaggio, come corredo genetico. In pratica, secondo questa concezione, un criminale è tale perché non può essere altrimenti.
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Bontà o meno di questa concezione, che però segue schemi narrativi vecchi di millenni, resta un discreto fascino della rappresentazione, a cominciare dalla scenografia, e la capacità di virare dalla commedia, che poi tanto commedia non è, e lo si capisce dalla prima coltellata, al dramma vero e proprio. Abilità non comune se si pensa che nessuno dei supereroi e dei loro vestiti improbabili strappa risate involontarie. Che persino Nicolas Cage impressiona, in una sequenza di omicidi davvero efficace. Anche se la palma va a Chloe Moretz e al personaggio di Hit-Girl. Dirompente, non so quanto rispetto al fumetto, efficiente e nuovo, da un certo punto di vista. Forse un ruolo pericoloso, forse no. O forse sarebbe ora che il pubblico iniziasse a usare il cervello, anziché assistere passivamente, schiavo di condizionamenti.
In conclusione, pur con le immancabili (e attese) esagerazioni, Kick-Ass mi è piaciuto. Anche se le forzature, leggasi quel senso di rivalsa sociale del protagonista, ne annacquano la crudezza. Se si fosse osato fino in fondo, questo film avrebbe potuto essere un’epica di sangue e morte, senza scampo e senza ragione. Così com’è, invece, è solo un buon film.
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