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Una delle variazioni, degli spin-off, più significativi e di maggior successo nella storia del rock fu quella più tardi battezzata “progressive rock”. Il rock progressivo nacque a Londra dalle ceneri calde della Summer of Love, l’estate del 1967 in cui la musica si era fatta psichedelica. L’idea alla base era quella allargare i confini della musica rock (o musica pop, come era chiamata dalle nostre parti, ma anche da quelle) attraverso la sperimentazione. Fino a quel momento le radici del rock erano state saldamente piantate nel blues e nel folk. Il nuovo trend era la contaminazione: con il jazz, con la misica classica, con la musica indiana. L’importante era abbattere gli steccati: la musica non doveva più necessariamente essere modellata in una forma canzone, non doveva più necessariamente durare i tre o quattro minuti di un 45 giri, e il suo scopo principale non doveva più essere quello di finire nella classifica di vendita.
L’idea era di musica come arte, come pop art per l’appunto.
I gruppi seminali erano tutti britannici, dai Moody Blues ad Procol Harum, dai Pink Floyd ai Nice, dai Trinity ai Colosseum, da Arthur Brown ad Atomic Rooster, a cui si sarebbero unite le formazioni tedesche di estrazione hippie, come Can, Faust e Tangerine Dream, e persino gruppi italiani, di tradizione melodrammatica, come il Banco e la PFM (non a caso fra i pochi artisti nazionali a trovare successo in terra straniera).
Le formazioni non erano più quartetti di basso, batteria e chitarre elettriche, ma mentre diventavano protagoniste le tastiere, facevano la comparsa sassofoni, flauti, violini più o meno elettrificati e persino inediti strumenti elettronici, come il mellotron ed i sintetizzatori, primo fra tutti il Moog. La primavera del prog sarebbe durata un lustro, a partire da A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum, ispirato a Joan Sebastian Bach, per finire ai capolavori di Close To The Edge, In The Land Of Gray And Pink, The Lamb Lies Down On Broadway. Esaurita la spinta propulsiva, anche a causa dell’enorme successo nelle classifiche americane di alcuni di quei gruppi, quella bizzarra variante evoluzionistica del rock si adagiò sul suono kitsch dei sintetizzatori, e la velocità di esecuzione di tastieristi e chitarristi, fino a insabbiarsi nelle secche della noia e del virtuosismo, ed essere spazzata via dal giorno alla notte, come i dinosauri, dal ritorno al rock essenziale della scena punk e new wave.
È paradossale come la cosiddetta scena neo-prog, comparsa nel nuovo millennio, sia in realtà quanto di più diverso e lontano si possa immaginare dalle motivazioni di partenza del rock progressivo. I gruppi neo-prog del duemila non sperimentano nulla, ma si divertono a suonare avvitandosi in un lunghe suite pretenziose e barocche, i cui ingrediente sono melodie banali, hard rock e virtuosismo strumentale. Una musica nerd di fronte alla quale non c’è da sorprendersi che la parola progressive evochi al tempo stesso nostalgia e sorrisi di compatimento.
Ma così non era nei magici anni fra il ’68 ed il ’72 (una storia che mi piacerebbe raccontare in un libro a venire).
Di tutti i gruppi che hanno battuta quella scena, i King Crimson di Robert Fripp furono quelli che più di tutti si guadagnarono rispetto e autorevolezza. Quelli che con l’effervescente esordio del 1969, In The Court Of The Crimson King, fissarono le regole del progressive sinfonico, ispirando i percorsi creativi di gruppi di successo come Genesis, Yes, Jethro Tull, Van Der Graaf Generator, Gentle Giant.
Non a caso Fripp volle chiudere l’esperienza sinfonica già nel 1971 con Island, e del tutto l’era progressive nel 1974 con Red ed USA. Salvo recuperare negli anni ottanta il marchio di fabbrica dei Crimson Mark III per il brillante quartetto new wave / industriale del periodo Discipline, e per proseguire, caso più unico che raro, nella sperimentazione musicale nei decenni a seguire con il Mark IV ed una fioritura di side project, o meglio, projeKcts.
Fermi dal 2003, anno di pubblicazione di The Power To Believe, nessun fan sperava in un ritorno alle scene. Ci si poteva accontentare del mare di ristampe del vecchio materiale a cui si aggiungono in continuazione le stampe di concerti di tutte le epoche, compreso il mitico 1969 dei primi concerti inglesi e del tour americano coast to coast. A dire la verità era uscito a sorpresa nel 2011 il titolo A Scarcity of Miracles etichettato come A Crimson Projekct, in cui comparivano Robert Fripp, Mel Collins, Tony Levin e Gavin Harrison dei Crimson, affiancati dal chitarrista e cantante Jakko Jakszyk, già leader di una Crimson tribute band battezzata appunto 21st Century Schizoid Band. Ma le dichiarazioni al proposito di Fripp, padre padrone della formazione, non lasciavano sperare in un ritorno ai live show della formazione, che invece si è concretizzata nel 2014, con niente meno che un settetto, composto da Fripp, dal sassofista Mel Collins, collaboratore fin dal secondo disco, In The Wake Of Poseidon del 1970, e Toni Levin, bassista dei Crimson dal 1980, a cui si aggiungono Jakko, voce e chitarra, e niente meno che tre batteristi (una fissa di Fripp), Pat Mastellotto, Gavin Harrison e Bill Rieflin (rispettivamente da King Crimson, Porcupine Tree e R.E.M.).
Live At The Orpheum è la registrazione del concerto a Los Angeles il 30 settembre ed il 1 ottobre.
Ed è un disco che mi entusiasma come e a tratti di più degli album di una volta della formazione. Lo so, se siete die-hard fan del gruppo o se avete orecchiato il parere di qualcuno di loro, ci sono state lamentele sulla durata del disco, i 41 minuti classici di un vinile long playing. Ma in tempi di neo prog e registrazioni e stampe digitali a basso costo, è cosa normale che un disco duri per gli ottanta minuti
Io invece mi dichiaro soddisfatto, perché non è sempre vero che “più sia meglio”, e la concisione è una virtù perduta. I sei brani di Orpheum durano proprio il giusto per incantare. Ma più della durata (o della brevità), quello che ho apprezzato nei King Crimson del 2014 è la capacità di venire a patti con il passato: anni dopo aver ripudiato il passato progressive sinfonico, Fripp riesce a mettere assieme una formazione che copre con coerenza tutto il periodo della storia del gruppo. Il disco si apre con One More Red Nightmare, un bel pezzo di chitarra dal capolavoro del Mk.II, Red, anno 1974. Prosegue con un pezzo di Harrison (Gavin, non George), e conclude il lato A con The ConstruKction of Light, Mk.IV, album omonimo del 2000, uno di quegli assolo di Fripp sulla falsa riga di Lark’s Tongue In Aspic.
Il lato B si fa romantico, etereo e sinfonico con la sequenza di The Letters e Sailor’s Tale, dal capolavoro di Islands, Mk.I, 1971, e lega perfettamente con il resto del concerto. La chiusura è affidata alla epica ballata di Starless, ancora da Red.
Nella sua essenziale architettura, Live At The Orpheum mi è sembrata addirittura ricalcare quella dell’esordio di Crimson King, dall’introduzione di Red Nightmare ad echeggiare lo Schizoid Man fino alla conclusiva Starless che riporta ai temi epici di In The Court, passando The Letters all’apertura della seconda facciata, tenue e delicata come Moonchild.
Per curiosità, dagli show originali di Los Angeles ci sono stati sottratti: Larks’ Tongues in Aspic, VROOOM/Coda: Marine 475, A Scarcity of Miracles, Pictures of a City, Level Five, Red, The Talking Drum, Hell Hounds of Krim, 21st Century Schizoid Man, The Light of Day. Pazienza.