Africa. Sei lettere. Ma mai una parola è stata così imponente per me. Mai come in questi giorni. L’Africa è un continente immenso di cui si parla da sempre, ma è lo scenario di troppi pregiudizi che partono spesso dal cuore e dalla mente di chi qui, in realtà, non c’è mai stato. I problemi ci sono e sono anche tanti, come posso testimoniarvi da Kinshasa, la capitale di quella Repubblica Democratica del Congo che fa paura ai più, ma che suscita l’interesse dei grandi giri d’affari, perché qui ci sono diamanti, oro, rame, cobalto e tante materie prime che, da sole, sono in grado di muovere le principali economie del mondo.
Ma nel cuore di questa Africa nera attraversata dall’equatore, le persone vivono con una dignità che mai ho potuto incontrare in nessun altro paese che ho visitato. Il rispetto per noi “uomini bianchi” è immenso. Non so se sia dovuto al fatto che il nostro team è composto da medici e infermieri che sono qui per migliorare la vita di tanti pazienti, ma vi posso assicurare che l’umiltà che ho incontrato nelle persone che in questi giorni hanno incrociato il mio cammino sarà difficile da dimenticare.
A cominciare dalle suore del Convento della Fede che ci ospitano durante la missione. Tutte le mattine alle 6.00 in punto si trovano nella piccola cappella interna alla struttura e iniziano la giornata cantando e pregando: sono loro la mia sveglia naturale, il mio buongiorno che non potrebbe essere migliore. La direttrice del convento si chiama suor Anne Antoinette, ma la chiamano Maman Coco e con la sua indistruttibile calma è capace di spostare le montagne (ne abbiamo avuto prova diretta). Al convento abitano una quindicina di suore che durante il giorno studiano e frequentano i corsi a scuola. Ognuna di loro soggiorna in una camera come la nostra: piccola, discreta, con un grande crocifisso appeso alla parete, una scrivania, un armadio, un piccolo tavolino e un letto vicino alla finestra che è sempre aperta, perché qui fa caldo anche di notte. L’acqua corrente è un privilegio che non abbiamo la fortuna di avere tutti i giorni, ma per loro non è un problema. Si raccoglie quella piovana dentro grandi secchi e la si utilizza per tutto: per lavarsi, ma anche per cucinare, lavare i piatti, i panni, pulire i servizi. E in questo luogo di pace fuori dal mondo e dal caos della capitale, l’energia costante è quella del sorriso e della gioia di vivere che, emanata da ogni suora, è capace di contagiare anche noi. Questa energia carismatica è espressa con le parole, le risate, i canti, i colori dei vestiti, ma soprattutto con gli occhi, fieri, intensi e profondi. Come quelli dei parenti che per ore aspettano in silenzio di poter far visitare i loro bambini ai nostri medici, o che attendono i piccoli all’uscita della sala operatoria. Seduti in corridoi bui, sporchi e puzzolenti, attendono e non chiedono. Sanno che tu li andrai a chiamare, che aiuterai i loro figli. Sono però i loro occhi a parlare e a dirti più di quello che vorresti sentire. Scavano nel profondo, e vanno a colpirti proprio lì, dove tu sei più vulnerabile. È un attimo, e ti hanno preso per sempre. Almeno questo è quello che sta succedendo a me. In quattro giorni l’équipe di Cute Project ha visitato oltre 50 bambini: 9 sono già stati operati, 8 lo saranno oggi e gli altri sono in lista per la settimana. Ieri tutti sapevamo che, alla fine degli interventi in sala, i dottori avrebbero visitato alcuni pazienti per programmare le prossime operazioni. Ma nessuno di noi pensava che, sin dalle prime ore del mattino, si radunassero sempre più persone: alla fine ci stavano aspettando 22 famiglie. C’è stato un momento in cui non credevo ai miei occhi: il corridoio del reparto di chirurgia era colmo di gente seduta, di bambini in braccio, donne sdraiate per terra che per ore hanno atteso senza bere e senza mangiare. E allora è l’istinto che ti guida e non puoi farne a meno. Succede che ti avvicini, parli, cerchi di rispondere alle domande, regali qualche gioco ai più piccoli, dai loro delle caramelle e con qualcuno si instaura da subito uno di quei rapporti che, pur non sapendo il perché, ti stringono il cuore.È il caso di Anne Marie che arriva dal nord del Congo: una bellissima ragazzina con due occhi incredibili. Le parli, conosci la sua mamma, le scatti qualche foto per il progetto dei Toro Club e ti ritrovi a tenerle la mano in sala operatoria e a fare da spola con il corridoio per tranquillizzare la madre, senza nemmeno sapere il perché. Lo fai e basta. Sai che non hai scelta.
Poi c’è Gerard: lui è grande, ha 17 anni, ma non è mai stato in ospedale. Come molti altri bimbi affetti da ustioni, anche lui ha un dito della mano completamente bloccato e “incollato” al suo palmo. Fa il musicista e si vede che è bello sveglio. A lui fanno l’anestesia parziale e durante l’intervento è perfettamente cosciente. E così gli parli, cerchi di distrarlo, gli dici di stare tranquillo e che andrà tutto bene. Gli fai coraggio, provi a farlo sorridere, inganni l’attesa, non lo lasci solo. Non puoi.
Ma c’è anche Patrick, nove anni, in ospedale dall’8 di novembre: è caduto dalla sedia ed ha perso i sensi. Lui non è tra i pazienti ustionati, ma è tra i primi bambini che abbiamo incontrato. Sta bene ormai da molto tempo, ma vive segregato in ospedale. Perché? Semplice, suo padre non ha i soldi per saldare la fattura delle cure mediche e la struttura ospedaliera lo tiene in “ostaggio”. Mancano ben 160 dollari. Una persona veglia su di lui 24 ore al giorno ma non gli vengono forniti né acqua, né cibo. Chiuso in una stanza vede gli altri bambini entrare per la notte di degenza post operatoria, con qualcuno gioca, ma per la maggior parte del tempo sta da solo in silenzio. Ma se gli parli ti sorride con quei suoi occhi grandi che brillano, nonostante tutto. Oggi Patrick tornerà a casa: Cute Project pagherà la sua “cauzione” e lui è già felice.
Queste sono piccole ma grandi storie che testimoniano il lavoro che la nostra squadra di volontari sta facendo a Kinshasa. Ogni paziente potrebbe raccontarci qualcosa e alcuni lo fanno. In molti ci spiegano come si sono procurati le ustioni (più che altro con olio o acqua bollente) e io sto imparando davvero molto. Non solo la differenza tra le varie tipologie di cicatrici, ma anche tutto il mondo che ruota intorno a una sala operatoria e l’umanità che c’è dietro a ogni gesto sia dei medici che di chi hanno di fronte. Ieri Daniele mi ha chiesto qual è la cosa che mi ha colpito di più dal mio arrivo qui: bene ho la risposta. Il fatto che delle persone ogni giorno parlino con altre persone senza pregiudizi, di alcun tipo. Vedo uomini relazionarsi con altri uomini con quella umiltà che troppo spesso noi abbiamo dimenticato. Razza, colori, malattie, qui non hanno confini. L’uomo parla con l’uomo e cerca di aiutarlo in tutti i modi possibili. Perché anche un abbraccio, qui, ha un valore diverso. Ve lo posso garantire.