Ci sono attori che impiegano anni per “svuotarsi” completamente della propria personalità e riuscire così a far posto ai personaggi che di volta in volta vanno ad interpretare davanti alla macchina da presa o sul palco di un teatro. E poi ci sono i talenti naturali, quelli che non hanno bisogno di scuole di recitazione, del metodo Stanislavskij, delle pratiche sensoriali.
Klaus Kinski (nome d’arte di Nikolaus Karl Günther Nakszyński) apparteneva a quest’ultima specie. Un attore fuori dall’ordinario. Non era bello alla maniera dei divi hollywoodiani, sdegnava la mondanità e lo star system. In lui molti registi di spessore hanno individuato le capacità necessarie per dare un volto ed un’anima ai perdenti, ai folli, ai cattivi, ai personaggi più “scomodi”. Per lui ci sono stati solo ruoli difficili da interpretare. E c’è sempre riuscito (come pochi altri nella storia del cinema tra quelli che si sono cimentati nelle medesime parti) grazie soprattutto al suo carattere istrionico, a quella egocentricità che per molti degli addetti ai lavori risultava irritante, e a quel tocco di follia che l’ha poi reso famoso anche per alcune celebri discussioni sfociate poi in episodi di vera e propria violenza sui set internazionali.
È inevitabile che il nome di Kinski rimandi la mente dei fans a quella bocca e a quegli occhi che si adattavano magnificamente ad esprimere i sentimenti più cupi ed animaleschi dell’animo umano. È altresì inevitabile associarlo a quello del grande regista visionario tedesco che è stato capace di esaltarne al massimo le potenzialità di attore: Werner Herzog. A partire dagli anni ‘70, il connubio Herzog-Kinski (paragonabile a quello Fellini-Mastroianni) ha dato vita ad una serie di film oggi classificati come “estremi”: Aguirre, Furore di Dio (1972), Woyzeck (1979), Nosferatu, il principe della notte (1979), Fitzcarraldo (1982), Cobra Verde (1987), che rappresentano una vera e propria sfida alle possibilità espressive del cinema.
Grazie al suo attore feticcio ed attraverso l’esaltazione di un eroismo romantico spesso volto alla conquista dell’inutile e dell’impossibile (alla maniera di Don Chisciotte, per intenderci), Herzog ha saputo dare nuova linfa a quell’ansia tipicamente tedesca di assoluto che va da Goethe a Wagner, inserendosi così a pieno titolo nel solco della cultura popolare del proprio paese.
Non basterebbero dieci pagine per raccontare la bellezza di personaggi folli e sognatori come Aguirre o Fitzcarraldo. Oggi, 23 novembre, a distanza di 20 anni dalla sua morte, mi piacerebbe ricordare Kinski semplicemente rievocando quella che è ormai considerata la sua immagine simbolo: quell’uomo vestito di bianco sulla tettoia di un battello alla deriva nel cuore della foresta amazzonica, circondato dal suono dei tamburi da guerra degli Indios, che sfodera il suo vecchio grammofono, gli dà la corda e lascia partire una dolcissima aria cantata da Caruso. I tamburi si placano e lo sguardo circospetto di Kinski in un attimo diviene fiero e regale. È quello lo sguardo del Super-Uomo nietzschiano che ha la consapevolezza di esser riuscito, anche se per pochi istanti, ad avere il controllo assoluto sulle forze della natura.
Gianluca Impedovo (quello di qua)