Di primo acchito potrebbe sembrare un’improbabile parodia a sfondo storico, la scena di una fiction di nicchia. Eppure è successo davvero. Il 24 luglio 1959 – esattamente cinquantaquattro anni fa – l’allora vicepresidente americano Richard Nixon e il primo ministro sovietico Nikita Chruscev si incontrarono a Mosca e diedero vita a ciò che, per l’insolita location in cui ebbe luogo, passò alla storia come “dibattito in cucina”.
Il tête-à-tête avvenne all’American National Exhibition, una fiera espositiva di produttori americani ospitata quell’estate dal parco Sokolniki della capitale sovietica, nella cornice di un prototipo delle moderne cucine preassemblate – fiore all’occhiello del boom industriale a stelle e strisce – e vide un acceso scambio di battute tra i due leader. Trovandosi in piena guerra fredda, fu uno scontro di civiltà come pochi altri prima e dopo.
I vertici sovietici e americani non si incontravano ufficialmente dalla conferenza di Ginevra del 1955, seguita di poco alla morte di Stalin e all’inizio del mandato presidenziale di Dwight Eisenhower. Il quarantaseienne Nixon non era quello dello scandalo Watergate – anzi, era molto più vicino al senatore che nel ’52 andò in tv e si difese vivacemente da una polemica sui fondi della sua campagna vicepresidenziale, chiamando in causa il suo cagnolino Checkers (da cui rimase il nome del discorso: Checkers’ speech). Nikita Chruscev, dal canto suo, era invece già quello che avrebbe battuto una scarpa sul tavolo all’assemblea delle Nazioni Unite del 1960: un operaio ucraino che aveva imparato a leggere e scrivere a trent’anni, ma, dopo aver combattuto nella Rivoluzione d’ottobre ed essere gradualmente finito nelle grazie di Stalin, si era trovato a capo di uno dei più grandi imperi di sempre.
In ogni caso, il clima di tensione nucleare nel 1959 sembrava aver fatto progressi: il mese precedente si era conclusa una speculare fiera sovietica a New York City, incentrata sul lancio dello Sputnik di due anni prima. Le due mostre furono parte di un disegno intergovernativo volto alla normalizzazione del rapporto fra i due Stati. La crisi dei missili cubani del ’62 sarebbe stata difficile da prevedere, in quei mesi. E con queste prerogative benauguranti Richard Nixon era arrivato a Mosca.
Come mostrano i documenti dell’epoca, all’American National Exhibition successe tutto molto velocemente: prima il capo di Stato sovietico si dichiarò infastidito da un pronunciamento del Congresso americano di pochi giorni prima che condannava il comportamento dell’URSS nell’Europa dell’est (l’invasione dell’Ungheria era avvenuta nel 1956). Poi, con uno dei coup de théâtre che l’hanno reso famoso, passò al contrattacco, impostando un’improvvisata disputa con Nixon sullo stato delle rispettive economie nazionali – e non solo.
«Questo è ciò di cui sono capaci gli americani?» chiese ironicamente Chruscev. «E da quanto esiste l’America? 300 anni? 150 anni d’indipendenza, e questo è il suo livello? Noi non abbiamo ancora 42 anni, e tra 7 anni saremo al livello degli Stati Uniti. E dopo andremo oltre. Passandovi di fianco, vi faremo “ciao”.» Fece proprio il gesto di salutare con la mano destra, ridendo sardonicamente. Nixon, accanto a lui, ascoltava il suo traduttore e sorrideva di rimando.
Ma il leader sovietico non aveva ancora finito, e il leggendario “dibattito in cucina” era appena all’inizio. «Se volete, dopo ci fermeremo e vi diremo di venirci dietro. Se volete vivere sotto il capitalismo, fatelo pure, sono affari vostri; è una questione interna. Non ci riguarda». In questo momento Chruscev non rideva più e Nixon per un attimo alzò gli occhi al cielo, quasi impercettibilmente.
Chruscev, visibilmente soddisfatto per le sue sferzate, si rimise in testa il panama bianco che indossava per l’occasione. Parlò Nixon: «È una mostra molto efficace», dissimulò all’inizio. «Per quanto riguarda i commenti del sig. Chruscev, sono quelli che abbiamo imparato ad aspettarci da lui. Se questa competizione che ha descritto è volta a fare il meglio per entrambi i nostri popoli ci dev’essere un libero scambio di idee». Ma il suo avversario l’aveva già interrotto facendo ampi gesti col braccio.
«Sui missili vi abbiamo sorpassato», precisò – mentendo – il leader sovietico, ormai padrone dei ritmi del confronto. Agitando un dito sotto il naso di Nixon, si inventò un’espressione come «non prendiamo mosche con le narici» (che valeva: non siamo dei sempliciotti), disse che l’URSS aveva fatto progressi e poteva competere con l’America, e, dopo aver definito il vicepresidente americano «avvocato del capitalismo» e se stesso omologo del comunismo se ne uscì, nel suo russo stentato, con un giocondo e paradossale «baciamoci!».
Lo scambio si chiuse, sempre in quella cucina progettata in Florida e finita a Mosca, con una promessa. Nixon, mantenendo la statura che aveva mostrato fino ad allora, lodò la nuova tecnica di registrazione video a colori della società americana Ampex, sviluppata pochi anni prima. Appoggiando una mano sulla spalla del capo del Cremlino, come un padre che mostra al figlio le meraviglie del mondo, disse: «Qua può vedere il nastro che trasmetterà questa conversazione immediatamente». Chruscev lamentò che Nixon giocava in casa e sarebbe stato facile, per lui, portare in tv l’incontro senza tradurre le sue frasi dal russo. «Mi dia la sua parola, vicepresidente, che il mio discorso verrà registrato e mandato in inglese». «Sicuramente», lo tranquillizzò Nixon, «e tutto ciò che dirò io sarà registrato e trasmesso in tutta l’Unione Sovietica: è un affare equo». Chruscev, che gli stava già stringendo la mano da una quindicina di secondi, rafforzò la presa e la scosse con più vigore. Sorridevano entrambi.
L’impressione comune fu che la fermezza cortese dell’ex senatore californiano riuscì, come nel caso del suo viaggio in Cina di quasi 15 anni dopo (Nixon goes to China è un’espressione entrata nell’inglese corrente, da allora), a migliorare i rapporti diplomatici coi comunisti. La rivista Time sostenne che il vicepresidente si era mostrato «sicuro del suo modo di vivere e del suo potere, pur minacciato». Il giornalista William Safire, che era presente allo scambio, nel cinquantenario dell’incontro ha scritto che «lo scaltro Chruscev se ne andò persuaso che l’avvocato del capitalismo non era solo testardo, ma anche dotato di una grande volontà».
Nell’ambito di questa cornice di rapporti più distesi fra le due superpotenze, nel settembre di quell’anno Chruscev ricambiò la visita recandosi negli Stati Uniti. Nella terra dello zio Sam ripeté che l’URSS avrebbe raggiunto e superato la ricchezza degli Stati Uniti, ma fece anche altro. Visitò gli studi di Hollywood, litigò violentemente col sindaco di Los Angeles e controllò il grano di una fattoria nell’Iowa. E poi fece carte false per andare a Disneyland, in Florida. La mattina del 19 settembre gli venne comunicato che per ragioni di sicurezza non avrebbe potuto recarsi al parco e Nikita, allora sessantacinquenne, diede in escandescenze. A colazione negli studi della Twentieth-Century Fox, reagì come descritto anni fa da Lorenzo Cairoli sul quotidiano veronese L’Arena:
«Ho appreso poco fa che non potrò visitare Disneyland. Perchè? Nascondete qualche base militare lì? Cosa c’è di così terribile in quel parco che le autorità americane non possono garantire la mia sicurezza? Un’improvvisa epidemia di colera? Tutti i gangster della California si sono dati appuntamento lì per farmi la pelle? Cosa devo fare per vedere Disneyland? Suicidarmi?». Disse proprio così:«Then what must I do? Commit suicide?» e lo disse davanti alle telecamere, ai giornalisti di mezzo mondo, agli occhi sgranati di Frank Sinatra, Bob Hope, David Niven e Marylin Monroe.
Scritto per Studio.
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