Il primo film portava con sé tutte le aspettative di scintillio della serie. Non ci fu scintillio, le aspettative vennero ampiamente deluse. L’ho guardato sorridendo e con rispetto, però: era pur sempre della mia serie preferita che stavamo parlando. In più confidavo nel fatto che l’esperimento sarebbe finito così, con l’amaro in bocca dettato dalla nostalgia e dalla visione di un film mediocre.
Il secondo non portava con sé aspettative di alcun genere, solo l’espressione un po’ imbarazzata di chi vede qualcuno che volutamente si rende ridicolo, unitamente alla magnanimità dettata dall’amore per i 94 episodi precedenti; quella magnanimità che ti fa dire “Diamogli una possibilità”, sebbene la storia non stia in piedi e tutti ne stiano parlando male.
Niente sesso, niente città. E già basta questo a decretare la fine di Sex and the City. Una volgarità mal celata e gratuita si insinua lungo tutto il corso del film che dura anche molto, troppo addirittura, (tanto da farmi guardare l’orario e accorgermi che siamo ancora a metà).
Carrie parla di scintillio, chiede scintillio, ma sullo schermo si proietta una fiera kitsch, di cattivo gusto in alcuni momenti. E per di più non si ride. Solo Samantha strappa qualche sorriso, ma una su quattro non è una buona media per chi è abituato a ben altri standard. Il Medioriente, che prende malamente il posto della city, è banalizzato e steriotipato. Una versione Orientalista, direbbe Said.
In Un’americana a Parigi parte prima, penultimo episodio della sesta serie, Carrie scivola a causa del pavimento bagnato e cade rovinosamente a terra da Dior “Sono caduta, da Dior!” dirà al russo non appena tornata in albergo, con una carta di credito che non potrà più utilizzare per lavare l’onta. Mentre è impegnata a raccogliere il contenuto della sua borsetta accovacciata e di fretta, una donna alta, dai lunghi capelli lisci la guarda con una espressione che è un misto tra disappunto ed imbarazzo per lei.
La sensazione che ho provato durante la visione del film è stata esattamente questa.
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