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Klaus Miser - Non è un paese per poeti

Da Ellisse

Klaus Miser - Non è un paese per poeti - Ed. Prufrock 2015 Klaus Miser - Non è un paese per poeti - Ed. Prufrock 2015

Non so chi sia davvero, a parte ciò che mi viene dalla sua scrittura. Ma certo Klaus Miser è prima di tutto un'identità o un eteronimo (il che è lo stesso), più che uno pseudonimo letterario. E ciò significa, e mi pare utile dirlo fin da subito, almeno una certa contiguità, niente affatto scontata, tra essere e poetare, una qual sovrapposizione o indissolubilità militante (ma sì, usiamo questo termine arrugginito). Insomma "Klaus" non è un alter ego e nemmeno un doppelgänger di sé stesso, non è un'entità che sta dietro o procede a lato, sebbene nella sua scrittura si percepisca una inquietudine perturbata.  Non è un caso,  mi pare, che l'esergo del libro reciti "I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo" (Wittgenstein), ma bisogna dare a "linguaggio", aggiungo io, un senso esteso, anche nella direzione di un superamento dei generi e delle forme artistici. Tutto, in questo linguaggio/mondo, è compreso, "nonostante me" dice l'autore nella nota iniziale. Miser è  semmai - quindi - un simbionte tanto ben adattato a una certa modalità poetica quanto critico verso la realtà che attraversa. Una  posizione in cui con ogni evidenza alla fine finisce per credere.
Organizzato come un acrostico espanso, anzi - dice il sottotitolo - "un errare britannico in forma di acronimo"  (le lettere che compongono il titolo sono anche capilettera delle sezioni) il libro esplora una serie di esperienze girovaghe, di erranze tra nebbie diverse, quella padana quella londinese, ricostruite attraverso un montaggio  serrato e veloce che tiene conto non tanto della prosodia o di una ipotetica economia del verso, che per Miser ha poca importanza, quanto piuttosto del fotogramma, dell'efficienza dell'immagine selezionata (o che si è lasciata selezionare) rispetto al quadro complessivo del testo, l'emersione di un qualcosa dalle nebbie di cui si diceva. Non vorrei tornare ancora sul discorso del frammento fatto più volte, e che è lontano da questo tipo di scrittura, invece più simile ad un flusso osmotico innescato da una necessità (sì, qui il vocabolo è appropriato) di riportare alla luce, di verbalizzare, qualcosa di più profondo, in una serie di schegge, di acute fitte versificate. Da questo punto di vista ha certo ragione Alberto Cellotto quando afferma in una sua nota (v. QUI): "accade infatti che il ricordo viene al mondo con la poesia e non accade che un ricordo sia, più genericamente, il punto di partenza di una poesia (che poi, a ben interrogarci, dove stia il "punto di partenza" di una poesia è un aspetto davvero misterioso...)". Incontri, incroci, personaggi borderline e molti, molti paesaggi attraversati, accennati, descritti anche con nostalgia, molte similitudini, molti "come" assai creativi che mi rammentano la passione che ne hanno le poetesse americane, molte situazioni in cui si allude a disagi striscianti o conclamati, stanze illuminate da una luce scarsa e radente che sbatte contro oggetti insieme insignificanti e minacciosi quanto la macchina da scrivere di Burroughs (ricordate Il pasto nudo?), fastelli di nomi e cose ("un’orbita una confusione e un nonsense / un io e un non io / una sigaretta un soffio un the e il bottone / il suono e l’inferno / una calotta una culotte...") e qua e là pennellate di colore (un "pantone", dice il poeta) in funzione forse di richiamo vitalistico o tratto, inamovibile e forte, di quelle  emersioni di cui si diceva (e in effetti uno dei motivi è questo scambio tra luce e ombra, tra interno ed esterno, tra grigio e colore). Incidentalmente, non è un caso che abbia parlato di emersioni: questo montaggio (a tratti potenzialmente intercambiabile all'interno del testo e tra i testi) raggiunge bene l'obbiettivo che si prefigge, poiché l'insieme (e credetemi, non è una cosa banale) è più della somma delle sue parti, per dirla in termini di gestalt. Come ogni atto artistico, del resto. La scrittura di Miser è senza dubbio lirica. Certo con le sue contaminazioni, i suoi innesti linguistici (citazioni, vocaboli stranieri, brani di testi di canzoni) in chiave modernista (piuttosto che post-), e magari c'è qualche cosa sopra le righe, qualche calco beat (e non solo qualche citazione), qualche posa cosmopolita. D'altra parte, qual'è il paese che non è per poeti? il nostro probabilmente, e non solo per ragioni diciamo così sociali, ma anche perché distante dalla cultura  che appare continuamente nell'infratesto, attestata anche dalla dichiarazione esplicita dell'autore ("Nel testo scintillano isolati versi di T. S. Eliot, J. Dos Passos, M. Foucault, A. Ginsberg, J. Kerouac, P. Vicinelli e E. Villa", e gli unici due italiani omaggiati non sono certo organici a questo paese poetico, mi pare), un panorama come visto dall'altra sponda dell'oceano, con le spalle rivolte a casa. Ma certamente è  anche per questa cultura che si tratta di un particolare impasto lirico, una rabbia lirica potremmo dire, che non vuole cioè rinunciare ad un continuo dibattito, all'interno del testo, tra espressione e impressione, tra elegia e rigetto, al centro del quale si pone come arbitro un soggetto esposto, non mediato, anzi per molti versi attoriale (Miser da quel che so agisce anche in campo performativo). Se c'è un vago rischio in questo tipo di approccio è forse quello del compiacimento, della ruga che attraversa la fronte corrucciata. Ma nel flusso, anzi nella fluidità volutamente un po' singhiozzante che ricerca Miser ci può stare, fa parte del gioco, rientra in quella assunzione di rischio, sostanzialmente onesta, a cui fa cenno anche Cellotto nella sua nota, di dire, di poetare senza stare a pesare troppo le parole. Un libro interessante, sono curioso di vedere, se ce ne saranno, le prove future. (g.c.)
P come dappertutto danze oscure
come l’universo laggiù
come stanze tiepide a barbes dove morire di noia
a furia di dolore ci mangiammo pure il dolore
P come perfino io
che non ho mai fatto la resistenza
se non ai miei stessi desideri
non ho avuto felicità da allodole sui fili
ma filiformi mattini di sigaretta
nella vecchiezza delle città
e grasse infelicità da resistenze inutili
nessuna soluzione di continuità
e corti circuiti cerebrali
niente cugini russi a caccia di farfalle
ma solo nonni emigranti che sono pure tornati indietro
nel cappello una violetta
e sono tornati indietro tachicardie clandestine epilessie da samovar e sdoppiamenti
di filiformi mattini dentro la vecchiezza delle città
e mai più i soffi di aprile dell’82
io che non ho mai avuto respiri oceanici
ma solo pozze adriatiche
al massimo un ventolin nei jeans
una sinfonia struggente per avere tutto
e non avere niente
io sono la vita sprecata di klaus
fallire la mia vita
è stata la mia ambizione più riuscita
E siamo qui fedeli
al muro che si screpola
allo svanire del tempo
follia in tre tempi
mi regalavo sulla soglia del lago
prima del rigore dell’inverno alla pensione gabriella
in una vasca arrugginita credendomi fassbinder
e invece ero solo una lampadina avvitata male
e un cane a chiazze mangiato d’amore
o una sequenza palustre di nulla
tirata a lucido per questo film
era un pomeriggio caldo
un bosco alle soglie del duemila
colonna sonora delle mie combinazioni
lineamenti di fossi e di vegetazione ripariale
la topografia ridisegnata dalle vene d’acqua le vene indaco sul tuo braccio perlaceo
si svegliavano assumendo spessore
nel sottoscala dove vivevi
non dimentico più quel potere
fatto di niente
eppure così persistente
da rendere il tempo solo uno sbiadito ricordo
[il tempo che precede l’esistenza]
urgente e bruciante
solo negli avambracci
ora luce ora buio
ora stanza d’albergo ora roccia
e sempre muri che si screpolano
ogni giorno fatto di dilatazioni di un solo istante
illusione ottica di agonie
palpebre su luce abbagliante e quindi siamo qui in un giorno d’inverno
scivolamenti confusi
frane complesse
plessi solari periodici
sterni di uccelli perlacei
da un’opera abbandonata andarono infine aggravandosi
le mie condizioni mentali
e tutto un indagare
pieno di luce e di vodka
luce indistinta su strade indistinte
il corridoio percorso in dieci secondi netti
ma ciglia nere lunghe e un finale di partita
finite le sigarette incisi tacche sul vestito vittoriano
sul lato sinistro una visione e un termosifone
di ferro la prima di ghisa il secondo
pur di non incontrare ancora la luce indistinta
su strade indistinte
dal muro solo il facchino come un canto d’amore
desiderio porpora di tiro
P come quel ricciolo bianco di nuvola
un giugno così afoso da chiamarsi luglio
dalla luna ripartizioni di polvere
crateri di viole dedicate
luccichii grossolani
stabat nuda aestas
ripiega poi il vento sui grattacieli lividi
che resta della nostra insonnia
dei nomi contraddittori degli dei
delle verifiche incerte di estati passate
la religione mestruale dell’accanimento
l’accanimento umido delle brume
morfologie fluviali del blu
orbitanti nel nulla e nel bianco un indelebile senso di perdita
che pervade la mia vita
P come il gesto che sancisce la fine del panorama
nervi scoperti e ferri salmastri
credendoci al mare
vedemmo solo alberi verdi animali esotici e un circo nei campi
un’effigie terrestre di orizzonte
e nessuna luna
non è un paese per satelliti
non è
una logica così priva di crudeltà
da farne spreco
che resta del vigore delle erbe infestanti
dei canti bronzei del tradimento
del cuore di una fornace la morte limosa come unica forma di coerenza
lo scisma definitivo
di qualsiasi ginestra di isola greca
tutti hanno ragione
nelle verifiche incerte dell’autunno
O come la spirale di nuvole verso il mare
tra follia e alghe
e una canzone al pianoforte
oppure la poesia
la porta chiusa
o come lo spioncino che guarda i fiori sui pianerottoli
la poesia come ultimo grido di aiuto
surplus ininterrotto
come lusso macchiato
l' inossidabile passione dei perdenti
come grido delle pecore ai fiori
un grido dei cani ai cuori malati
che precipitano dai tetti
corrosi dalle grondaie
codeina sul comò delle cantanti
non sono cuori sono solo ombre
di poeti uccisi dal sole a picco cuori alloro melograni
sciacquati dalla pioggia
e finestre cieche e chiuse
e stanze piene di famelica grazia
non c'erano giardini ma strade che morivano alla ferrovia
un quando e un oppure
un how long un autumn
e un tramonto apocrifo
sulle sere al porto con te
l' insegna del bar trieste scintillava di lucine
intermittenti aperto aperto
noi eravamo pronti a essere sbranati
come il mare sbrana le nuvole d'estate
E lucidare sere viola e notti pervinca
ombre bianche
una febbre lenta
una pioggia incipiente
birra tiepida alla stazione
vodka ghiacciata nei bar malandati
e un senso di noia da ammutolire le stagioni
un urlo poi
era gennaio
lo spasmo quindi di febbraio
e un crampo a marzo una nausea ad aprile
le tristezze mattutine di maggio
i frattali bluastri di giugno
a luglio stavamo a guardare
dai tavolini del bar al porto
il cielo che terminava in movimenti occulti di luce
anche oggi è finito ma quand'è che è cominciato
quand'è che è cominciato
le verifiche incerte dell'estate sfibravano agosto
in nature morte di siepi malate
e luccichii grossolani
a settembre tornò la tavola degli elementi
lo sterno periodico dei pettirossi dei merli e delle foglie
a ottobre tu ti sei ucciso
novembre passò in fretta mentre morivo piano
si slargava imprendibile come soffione atomico
la mancanza di te
le betulle riempiono di cenere grigia il mese di dicembre

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