È forte la tendenza ad inscrivere ogni prodotto cinematografico ellenico all’interno dell’onda greca edificata da Lanthimos & c. In effetti ciò che il buon Yorgos e la Tsangari hanno messo in piedi è un movimento che si guadagnerà qualche pagina nei manuali di storia del cinema, è difficile dire quanto durerà ancora (forse è già finito con The Lobster, 2015), fatto sta che al rimorchio lanthimosiano ci si sono attaccati in molti (Avranas, Konstantatos e Makridis i primi che sovvengono) e da qui monta la curiosità, nonché una sottile perplessità, su come si potrà sviluppare il tutto, se ci sarà un altro ciclo, se vedremo un cambiamento. Chissà. Questo preambolo per dire: probabilmente il giovane Christos Nikou in futuro sarà uno degli esponenti che continueranno a portare avanti questa wavegreca, d’altronde la gavetta se l’è fatta (a venticinque anni era già secondo assistente alla regia in Dogtooth, 2009) sicché nel momento in cui si presenterà al grande pubblico con un lavoro più corposo l’etichetta “allievo di” è già pronta per essergli affibbiata.
Forse il suggerimento che Km (2012) possa seguire la scia sopraccitata potrà apparire una forzatura recensionistica, è condivisibile: in undici minuti di girato, praticamente tutti all’interno di un abitacolo con una sintassi di piani elementare, estrapolare conclusioni sullo status di appartenenza del film alla corrente del proprio Paese appare più come il riempirsi la bocca del critico (si legga la prima riga di questo breve scritto) che la concreta inerenza alla scuola sotto esame. Ma forse è meglio concentrarsi un minimo su Km e al diavolo le inutili congetture: sì, anche se scarno fino all’osso il corto sa gettare qualche minuscolo seme: allora: il moto è doppio, seguitemi: abbiamo, si suppone, un disegno reale, ovvero c’è una coppia che litiga dentro un’automobile, poche parole, poche spiegazioni, si sente che l’acredine tra i due è forte; ad un certo punto entrambi iniziano a sanguinare, non ne sappiamo il motivo. Sanguinano. Ecco il piano superiore, potrebbe essere che questa crisi deflagrata in una gabbia claustrofobica (allegoria della loro relazione?) comporti un tangibile dolore fisico? Nikou a mio avviso propone questa chiave, è giusto una fessura metaforica, niente di più, però c’è, come c’è una sofferenza indotta dal trucco e da un abbassamento di luci sul volto di lui che lo rendono sofferente ed emaciato. Poi con la piccola beffa del finale lo strazio simbolico si smonta e veniamo a conoscenza dell’eziologia fattuale, del-come-sono-andate-le-cose che non era poi così necessario visto che porta ad un leggero indebolimento dell’opera, comunque sia nell’etere permane l’impressione che ciò a cui abbiamo assistito vada aldilà degli effetti causati da un incidente stradale, l’impalpabilità di tale suggestione si diffonde sottile lasciando qualcosa.