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«Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da essa è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l'uno sull'altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall'idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nella autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi, spettri, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella autocoscienza come “spirito dello spirito”, ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d'altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze»Karl Marx, Friedrich Engels, L'ideologia tedesca, cap. I, Editori Riuniti.In punta dei piedi, bussando, cerco d'entrare nel grande complesso architettonico del pensiero marxista. Sarà la crisi di sistema, sarà che il quotidiano esercizio pedagogico di Olympe de Gouges su me funziona, sarà anche perché, insomma, e lo dico a naso, Marx sta all'economia come Darwin sta all'evoluzionismo¹ - e come l'idea pericolosa di quest'ultimo ha contribuito a modificare la mia forma mentis, così, credo, anche Marx, potenzialmente, potrebbe darmi, non dico fedi, ma ragioni per capire il mondo il reale, e catturarlo come un entomologo cattura e studia le farfalle.Finora mi sono tenuto lontano da Marx ed Engels per varie ragioni: la prima, è che ho iniziato a leggere libri nel momento in cui il socialismo reale non stava tanto bene, le voci del dissenso dell'est europeo sgretolavano la cortina di ferro e io le ascoltavo pieno di rabbia e di ammirazione per quello che avevano subito e subivano (penso a Salamov, a Brodskij, ad Havel); il Pci italiano, poi, era così grigio (Gaber dixit) e triste, e poi - insomma, la variegata composizione del pensiero umano non mi consentiva di concentrarmi su un pensiero così denso, totalizzante. Ne avevo paura di per sé, anche se intuivo che Marx non c'entrava niente con l'URSS e con la Cina, limitandomi solo a dire, in fondo, come Gesù stesso non c'entra niente col cristianesimo, tantomeno col cattolicesimo.Bene, a piccoli passi, e senza alcuna pretesa di interpretazione e sistematicità, solo buttando là estratti e chiosandoli con quello che, al momento, essi mi danno come ispirazione, comincio a visitare il pensiero di Marx.E riguardo al brano riportato cosa dire in particolare se non assentire? La nostra contemporaneità s'è trovata in sorte questa somma di forze produttive che stanno lacerando quel piccolo tessuto di benessere prodottosi, dal dopoguerra in poi, da quella cazzo di politica del debito, attraverso la quale hanno goduto un po' di persone, sì, ma a scapito di molte e di gran parte del mondo stesso. E infine, quando Marx ed Engels scrivono che «non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia», mi sembra di leggere, con ciò, la sentenza di fallimento di ogni riformismo. I piccoli aggiustamenti del sistema non cambiano la natura di esso e i rapporti sociali esistenti perché il riformismo dà per scontato, aprioristicamente, che le classi sociali siano qualcosa di immodificabile e che siano giustificate, a prescindere, le separazioni di censo. In fondo chi è l'artefice delle riforme se non il potere stesso? E come può, chi comanda, riformare il sistema per danneggiare se stesso?
¹Non vorrei dire cazzate, ma penso che, come l'incontro con la genetica mendeliana ha fornito alla teoria darwiniana di selezione naturale il pieno statuto di scientificità, a Marx servirebbe qualcosa di analogo, ovvero che qualche teorico fornisca, coi suoi studi sui piselli in scatola del supermercato (leggasi in modo estensivo tutto il sistema di produzione capitalistico) nuove applicazioni del marxismo.
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