di Antonio Conte – Ecco un nuovo tema-link per la rubrica dedicata al web “Se torni, Te lo dico!”, questa volta riguarda un interessante sito di Storia e di Viaggi, si chiama infatti “I viaggi nella Storia“. Proponiamo solo il primo dei 24 articoli, non mancano le foto, che Stefano Schiavi ha redatto nel 2000 durante il suo soggiorno in Kosovo. L’articolo che avvia la serie e che è di fatto una presentazione del suo lavoro ed insieme un manifesto su come si accinge a farlo.
Tuttavia è molto apprezzabile la lucidità del reporter nel rendersi conto delle distanze (davvero minime) del confitto dall’Italia, delle esigenze dei media televisivi di tirare su gli ascolti e terzo di fare la cronaca su quanto viene svolto della Forze Armate Italiane in area. Spesso si tratta, dice egli stesso, di “Un lavoro fatto in silenzio, con umiltà ma con grande professionalità da ragazzi e ragazze, che giorno dopo giorno ‘esportano’ in questa terra tremila anni di storia e civiltà“.
Sinceramente con Stefano Schiavi siamo concordi solo in parte; nella prima parte sì, ma nella seconda lo siamo solo per metà, e non condividiamo pienamente con la sua metafora dell’”esportare“.
Lungi dall’essere una critica al lavoro ed all’articolo di Stefano Schiavi, che invece si apprezziamo molto, questa nostra riflessione vorrebbe essere piuttosto un breve colloquio con lui ed un confronto a distanza, anche sperando in una sua eventuale risposta a dodici anni dalla stesura del suo articolo. Per cui partiamo proprio dalla sua metafora.
Egli dice “esportare” riferendosi alla “storia e civiltà” della cultura italiana di tre mila anni, forse ricollegandosi alle vicende italiane a partire dall’impero romano o ancora prima. Ma la metafora “esportare” si presta più propriamente alle merci, e cosa più importante che nell’esportare si ha uno spostamento, se si vuole uno scambio, di un bene che non sarà più nella disponibilità del primo ad esportazione avvenuta. Insomma “esportare” è un po come “dislocare”. Non si addice invece alla nostra realtà che non vede poi il nostro soldato senza “civiltà e storia”. Il bene qui si vorrebbe che fosse duplicato o clonato nel prossimo delle popolazioni serbe ed albanesi, non certo spostato. Punto secondo il bene esportato andrebbe a riempire un vuoto (o rende disponibile un qualcosa) nel luogo, o nella sede, in cui lo si esporta assumendo che chi “importa” non abbia quella particolare proprietà o utilità.
Si crede, dopo aver letto diversi reportage del tipo “mordi e fuggi” che la predisposizione psicologica e professsionale del giornalista sia la medesima. Mi chiedo quanti siano poi tornati in Kosovo, o più in generale sul proprio lavoro, per una più attenta rilettura. Quanti hanno considerato “kosovo-cosa fatta” e poi avanti per un altro Stato, per una altro Dossier, eccetera?Ecco che allora è necessario un approfondimento sulle questioni lanciate dai “giornalisti embeded” che a seguito delle Forze Armate si sono recati in Area di Crisi. Va fatta almeno per due questioni qui annunciate proprio dalla metafora “esportare“. Ripeto non me ne voglia il giornalista Stefano Schiavi, del quale invece si loda il lavoro e non meno il coraggio.
La prima è che la metafora da per scontato, o fa credere che in Kosovo, le popolazioni che vivono in Kosovo abbiano bisogno di imparare cosa sia la “storie e la civiltà”, su questo noi non siamo d’accordo. Crediamo che essi ben sappiano cosa sia la Storia, perché è proprio quella che i serbi stanno rivendicando, ovviamente qui parliamo della propria storia (quella di loro). I serbi, infatti, nel 15 Giugno 1989, a seicento anni dalla data del 1389 giorno in cui il principe Lazar e le truppe croate e serbe hanno combatto contro il sultaro Murat perdendo, e perdendo propriamente la testa essendo stato decapitato ha segnato un punto fermo nella storia del luogo, tanto che in quel preciso punto vi è nata la Torre di Gazimestan, e proprio da quel luogo Miloscevic, ai fatti il Presidente di Serbia, piegando ai propri scopi i mito, la Storia resa suggestiva dalla leggenda e dalla poesia epica ha lanciato il suo tentativo di ripristinare l’ideale della “Grande Serbia”, ben consapevole dal valore civile della emancipazione culturale rispetto a quelle che essi credono (alla stessa maniera di chi esporta) popoli dalle non-culture e dalla non-civiltà.
Delle due l’una: da un lato si crede che la civiltà o vi è o non vi è, dall’altro che le culture siano diverse ma esistano per entrambi. Noi non crediamo che si possa avere una popolazione senza una propria “Storia e Civiltà”, siamo invece concordi nel pensare che le civiltà esistano e che siano diverse, magari non sono note, non sono conosciute, ma che esistano, non può che essere così: non si può ignorare l’uomo benché diverso da sé.
L’errore di valutazione della metafora “esportate” ci fa ricadere in un circolo vizioso, quello di voler stratificare le storie e le civiltà, assumendone la loro assenza, dove invece ci sono: eccome se ci sono. Evidentemente è proprio questa cecità che i serbi da un lato e gli albanesi dall’altro non perdonano a noi altri, dicendoci che vediamo il lato “rosa” dalla vicenda, ovvero ci soffermiamo a descrivere l’alone leggendario ed epico di questi luoghi.E’ proprio per questa cecità, tipica di quel certo giornalismo, del tipo “mordi e fuggi”, per cui la questione del riconoscimento reciproco tra serbi ed albanesi, rimane perennemente irrisolta. Ma qui non si vuole dire che la colpa sia dei giornalisti, ovviamente. Semplicemente è sbagliato l’approccio, come è sbagliato a parere di chi scrive, proporre sempre nuovi addetti della Forze Armate, perennemente a digiuno di storia locale, di implicature culturali personali. Bene invece un pool di giornalisti/addetti all’informazione, esperti di area che si avvicendano in modo da non disperdere quanto conosciuto in termini di conoscenze dei luoghi, della storia, delle attualità e non meno dei contatti locali. Bene i convegni annuali interni e le tavole rotonde tra gli operatori. Ma a chi toccherebbe, alle Forze Armate o alla Politica?
Ma torniamo umilmente alla analisi della metafora “esportare” e tentiamo di trovare in chiusura una valida alternativa che speriamo “saporita” per tutti.
Credendo che l’approccio valido sia quello del dialogo e del confronto ci piace scegliere la metafora del “miscelare” come succede in un “caffè e latte” in cui gli ingredienti di partenza si mescolano in un terzo mantenendone tutte le caratteristiche e fondendosi in un “cappuccino”.
Ma concludiamo con il secondo finale, proponendo in alternativa la metafora del “mescolare” come si fa con “l’olio e l’aceto” in una superba insalata in cui gli ingredienti rimangono separati ma si sposano in modo eccellente, esaltandosi reciprocamente al gusto: è l’”agrodolce”.
Antonio Conte
L’articolo suggerito per la lettura: Un mese in Kosovo, tra storia e realtà (Reportage di guerra scritto nel 2000) di Stefano Schiavi. http://www.iviagginellastoria.it/rubriche-2/approfondimenti/152-un-mese-in-kosovo.html