Kotoko

Creato il 19 novembre 2012 da Eraserhead
Filmografia alla mano negli ultimi anni la carriera di Shinya Tsukamoto rischiava pericolosamente finanche tacitamente di non riuscire più a risollevarsi da un declino innegabile: Haze (2005) carino ma null’altro che un bigino su e del proprio stile, Nightmare Detective (2006) e Nightmare Detective 2 (2008) due film di cui non si avvertiva la necessità in un panorama saturo di incursioni yūrei, Tetsuo: The Bullet Man (2009) terzo capitolo di una serie che verosimilmente aveva detto tutto con il suo primo indimenticabile episodio. A conti fatti l’ultimo lavoro di spessore rimaneva dunque (l’addirittura poetico) Vital (2004), almeno fino alla presentazione di Kotoko a Venezia ‘11.  Kotoko è film dalle basi tsukamotiane sia nella buccia che nella polpa ma che contemporaneamente non ha timore né di ricordarsi i bei tempi che furono (l’autore, come sempre anche attore, si diverte: prima dice che ha scritto un libro dal titolo Bullet Ballet (!) e poi utilizza su di sé un make-up molto simile ai visi tremendamente tumefatti di Tokyo Fist, 1995) né di riscriversi (i segnali di stile e temi sono facilmente riscontrabili: riprese sismiche, montaggio furente, ruolo chiave di Tsukamoto dentro il racconto, ossessioni lasciate nel loro imbizzarrito fluire, incisioni splatter improvvise come lampi… eppure Tsukamoto non si autocompiace di quanto mette in scena, il fervore che elettrizza la pellicola fornisce quell’aitante benessere filmico degno delle sue produzioni giovanili), pertanto Kotoko sa profilarsi come un possibile nuovo inizio per il folle genio del cyberpunk, difficile sapere quale sarà il futuro ma il solo che trovare una sequenza di un’incomprensibile bellezza come quella dalle parti del finale è un ottimo punto di ripartenza.
L’alternanza tra la claustrofobia degli interni che suggerisce un’impostazione horror-psicologica d’accezione polanskiana e le sortite gioiose nel luogo verdeggiante dove vive la sorella di Kotoko, manifestano l’instabilità della protagonista vittima di una via crucis cerebrale che la spinge ad alzare delle barricate contro il mondo esterno, e in effetti in questo film è impossibile non parlare di mondi/sistemi che orbitano a pochi metri gli uni dagli altri ma a cui appare difficile trovare un punto di contatto; la connessione di Kotoko con l’Altro è continuamente recisa dalla sua mente malferma che la pone in un conflitto perenne con tutto ciò che non fa parte del mondo che si è costruita, solo durante le parentesi canore, momenti ascensionali del film, l’ossessività trova quiete, ma si tratta di singoli episodi incapaci di arrestare la deriva personale di questa madre che paradossalmente è inabile perfino ad accettare la realtà-altra del figlio che lei e solo lei ha partorito. La disgiunzione di Kotoko è altresì evidente nel rapporto con lo scrittore-Tsukamoto che diventa oggetto di quelle violenze fino a quel momento autoinflittesi, tagli sulle braccia non per morire ma, come affermato da lei, per capire se le era ancora concesso vivere. L’improvvisa scomparsa di Tanaka a cui segue il rientro del figlio segna il punto di non ritorno: l’impossibilità di allacciare a sé l’alterità, di mescolarsi nel mondo, di sintonizzarsi sulle coordinate affettive altrui, la gettano nello scompiglio psicofisico, e assistendo (nella sua testa) alla morte del bimbo la donna arriva a saldare la realtà (?) televisiva con la propria in un climax dove il riallacciarsi con l’Io diviene assolutamente irrealizzabile. Genuflettetevi, Tsukamoto è tornato.

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