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Kotoko (2011)

Da Silente

Kotoko (2011) 2011, Giappone, colore, 91 minuti  Regia: Shin’ya Tsukamoto  Sceneggiatura: Shin’ya Tsukamoto 
Il cinema di Tsukamoto è forse indescrivibile, nelle sue inquietudini e nella trasversalità dei generi affrontati, ma è indubbiamente riconoscibile per stile e certa attitudine, e bastano infatti pochi fotogrammi per distinguere il suo talento grazie a un prologo straordinario nei suoi, quanti, dieci secondi di inquadrature traballanti e montaggio frenetico di una spiaggia dove, al malinconico frastuono del mare, subentra bruscamente un grido agghiacciante che da solo descrive l’intera pellicola, una visione amara e triste che alterna momenti poetici e toccanti ad altri di turbante violenza.
Tra i tanti registi nipponici che ammiro, Tsukamoto non è mai stato tra i miei preferiti – a un approccio visivo fenomenale, assai personale nel combinare immagini e suoni che descrivono e parlano molto più dei suoi personaggi, ho sempre trovato poco stimolante la fragilità, o una certa assenza, se vogliamo, narrativa di trame costruite più per stimolare riflessioni e colpire ai sensi che per reale bisogno di raccontare, o meglio spiegare, una storia. Kotoko non scampa alla tradizione, Tsukamoto punta molto sulla forza visiva e sonora, devastanti, lasciando in disparte una qualche struttura narrativa, ma è di certo una visione che non si scorda facilmente oltre che, in tutta sincerità, la pellicola del regista nipponico che più ho trovato profonda e che più mi ha colpito.
Siamo dalle parti di un horror psicologico dove realtà e follia si sgambettano a vicenda, partorendo situazioni che non è dato sapere se appartengano al contesto o alla sola mente della protagonista, Kotoko appunto (interpretata dalla cantautrice Cocco), madre single incapace di accudire il figlio e affetta da una strana capacità visiva che le permette o più che altro la perseguita facendole vedere ogni persona come se in realtà fossero due, la sua metà buona e la sua metà cattiva. La trama tuttavia non è che un semplice spunto, quello che succede in questi novanta minuti si potrebbe riassumere in una manciata di parole ed è in fondo marginale all’aspetto principale del film, che come si evince dal titolo è Kotoko stessa, progressivamente distrutta dal suo bizzarro potere o, forse, dalla sua sola pazzia, unica artefice dei problemi a cui va incontro, dal necessario affidamento del figlio alla sorella alla difficile relazione con lo scrittore che la corteggia, interpretato dallo stesso Tsukamoto che anche in questa occasione si ritaglia una bella parte nel cast.
Ne esce quindi un film stordente, che oscilla tra lunghe, lunghissime inquadrature dedicate a Kotoko mentre canta tristemente le canzoni a lei più care, e sequenze terremotanti per potenza e ferocia (su tutte l’assalto dei soldati), momenti nei quali Tsukamoto dà ovviamente il meglio di se stesso grazie alla freschezza dinamica con cui muove la camera a mano, un frastuono visivo e incontenibile capace però di mostrare efficacemente cosa provi Kotoko nel suo interagire con se stessa.
Film di suggestioni e allucinazioni, potente quanto durissimo (una scena in particolare è annichilente come poche), ma anche delicatamente malinconico e struggente (l’avvicinamento dello scrittore, la scena finale), e dotato addirittura di una piccola parte ironica perfettamente integrata tra un carattere e l’altro, ha vinto il premio Orizzonti all’ultimo Festival veneziano. Da vedere.

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