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Kotoko

Creato il 24 dicembre 2011 da Makoto @makotoster

KotokoKOTOKO.Regia, sceneggiatura e montaggio:Tsukamoto Shin’ya. Fotografia: Tsukamoto Shin’ya, Hayashi Satoshi. Scenografia, coreografia e musica:Cocco. Suono: Kitada Masaya. Interpreti e personaggi: Cocco (Kotoko),Tsukamoto Shin’ya (Tanaka). Produzione:Kaiju Theater Co., Makotoya. Durata:91’. Prime proiezioni: 8 settembre2011 Festival del Cinema di Venezia (anteprima assoluta); 14 settembre 2011Toronto International Film Festival; 7 ottobre 2011 Pusan International FilmFestival; 26 novembre 2011 Tokyo FILMeX. Uscita nelle sale giapponesi: 7 aprile 2012Link: Asia Express - CineClandestino -The Eight Samurai - Indie eye - JFilm Pop-Wow - MyMovies.it - Video dibattito con Tsukamoto al Toronto International Filmfestival 2011
Punteggio ★★★★1/2
Giratoin digitale e premiato quale Miglior Film della Sezione Orizzonti all’ultimoFestival di Venezia, Kotokorappresenta, dopo le incertezze del terzo capitolo della serie Tetsuoe del dittico di Nightmare Detective,un ritorno al miglior Tsukamoto. Il film è figlio dell’incontro fra il registae la cantante Cocco, già autrice delle musiche di Vital, che oltre a interpretarne il ruolo di protagonista, Kotoko,ne ha curato anche le scenografie e le coreografie. L’opera è quasi una summadella poetica di Tsukamoto nel suo guardare all’uomo – e soprattutto alla donna– nell’inestricabile connubio di corpo e mente, così come lo è sul piano dellostile e della messinscena, per l’aggressività del suo linguaggio che attraversol’uso insistito della macchina a mano, delle soggettive e dei pianiravvicinati, nonché dei continui slittamenti tra ‘reale’ e immaginario, traducecon grande efficacia audiovisiva il senso d’angoscia insostenibile che pervadel’intera vicenda. Kotokoè una giovane madre single che vive con profonda e sentita inadeguatezza ilproprio ruolo. È ossessionata da tutti coloro che incontra, di cui vede semprematerializzarsi una sorta di doppio malefico e crudele (l’altro che è in ognuno di noi). Non regge all’idea che la vita delpiccolo Daijirō dipenda dalle sue «fragili braccia» femminili. È così leimmagini di possibili catastrofi – che solo in un momento successivo il film cirivela come visioni – si susseguono a ripetizione: il bambino che cade dalbalcone, che si infila in un occhio una matita dalla punta acuminata, che èinvestito da un auto in un fragore assordante. In una delle scene più riuscitedel film, Kotoko cerca disperatamente di cuocere del cibo in un wok, mentre tiene in braccio il piccoloche strepita, in un crescendo drammatico che oltrepassa, proprio per la suaassoluta quotidianità, le soglie del sostenibile.  Ilfascino del film risiede anche sui diversi registri su cui si costruisce: comequelli sentimentali – ma autenticamente tali – della visita della madre alfiglio che le è stato sottratto per essere affidato alla sorella,  o comico-grotteschi, come nella scena in cuiTanaka, uno scrittore interpretato dallo stesso Tsukamoto che di Kotoko si èinnamorato, cerca di soccorrerla dopo che lei si è ripetutamente tagliata lebraccia, trovando solo dei pannolini al posto degli asciugamani. Di notevoleimportanza anche i momenti cantati e danzati, gli unici in cui Kotoko si sentelibera dalle proprie ossessioni: come quello della lunga canzone che lei dedicaa Tanaka, o quello che apre il film, dove la danza scomposta della donnadavanti al mare è bruscamente interrotta da un suo premonitore urlo. Laparte centrale della pellicola è affidata all’incontro fra Kotoko e Tanaka ealla loro relazione, all’amore ossessivo dell’uomo e alle paure della donna,alla dimensione sadomasochistica del loro rapporto, dove il corpo violato, itagli sulle braccia, il volto tumefatto sono i segni del tentativo di penetrarein una dimensione che nella sua radicale eccezionalità sembra essere l’unicapossibile per poter davvero accettare ed essere accettati dall’altro. Amare èoltrepassare una soglia, varcare un limite, infrangere un tabù: è questo tabù,qui come in altri momenti del cinema di Tsukamoto, è quello dell’inviolabilitàdel corpo. Kotoko è, e forse in primo luogo, unfilm esemplare di quel sottogenere narrativo che potremmo chiamare della‘discesa agli inferi’, ovvero di quelle storie che narrano il precipitare diqualcuno in un abisso di follia in cui si arriva progressivamente a perdere ilcontrollo di sé e del mondo che ci circonda. Quando la giovane protagonistariesce ad avere di nuovo il piccolo Daijirō, tutto ritorna tale e quale comeprima. Le ossessioni sono sempre le stesse. A nulla sembra essere servito laviolenta relazione con Tanaka, che il film ha volutamente fatto scomparire nelnulla. Siamo prigionieri di noi stessi e del mondo che ci siamo costruitiintorno. La realtà è solo quella che la nostra mente filtra, adattandola alleproprie storture. L’epilogo del film è un momento sublime. Daijirō ormaicresciuto va a trovare la madre ricoverata in una casa di cura. Le racconta dellasua vita a scuola, degli sport che pratica. Le fa un origami a forma di cicogna (forse un rimando all’Orizuru O-sen di Mizoguchi del 1935). Ma la donna, seduta altavolo davanti al figlio, non apre mai bocca e tace per tutto il tempo. Dopo ilsaluto di Daijirō, Kotoko si affaccia alla finestra, per vederlo mentre siallontana. Questi, consapevole dello sguardo materno, si nasconde dietro unalbero, per poi ricomparire all’improvviso, proprio come la madre faceva conlui, quando andava a fargli visita dalla sorella. Tutto si ripete e rimane.Niente si dimentica. Difficile trattenere le lacrime (quelle autentiche, chesolo il grande cinema ci fa versare). [DarioTomasi]

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