Sorvolando per una volta sullo stile Procacci, una specie di spot patinato d'ambientazione squatter, comprendendo pure il poco comprensibile - e per fortuna poco utilizzato - mélange di messinscena e immagini di repertorio, e magari perdonando un po' meno quel girare in tondo della macchina da presa a seguire il movimento della ragazza torturata, quello che toglie a Diaz l'intensità del suo sdegno è il ricorso ai luoghi comuni sulla nostra società e sul mondo così come si rivela quando lo si inserisce a forza in un racconto. Un po' come la storia delle macchine d'epoca che sole devono fornire l'idea del viaggio nel tempo. Qui l'obiettivo, però, non è la ricostruzione di una decade passata, ma la restituzione di un clima culturale, la resa in termini narrativi di due idee di paese in contrasto, l'Italia con l'impulso fascista e repressivo e l'Italia solidale e idealista. Mi sta bene che nei giorni del G8, anche nell'ottica di una redistribuzione delle responsabilità, entrambe le parti fossero facilmente distinguibili, ma i due ragazzi del social forum che si conoscono, fanno l'amore e poi si separano quando lei, chitarra in spalla, sale sul furgoncino Wolkswagen e il poliziotto che compra alla fidanzata i biglietti per Rick Martin in cambio di quelli per i Black Crowes, nella loro immediata, un po' infantile evidenza spostano il discorso su un piano puramente stereotipato, come in un innocuo gioco di figurine.
Sono momenti brevi e forse insignificanti in un quadro generale che si salva e va dritto al segno, non c'è dubbio. Ma ieri pomeriggio, uscendo dalla sala e ripensando al film, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché il cinema italiano debba sempre scegliere di essere così elementare ed ovvio, invece che complesso e stratificato; popolare sì, ma nella direzione di una semplicità che riduce ogni figura a macchietta. Quanta kryptonite nella borsa, insomma, si portano appresso anche questi film seri, in buona fede e in fin dei conti riusciti?