Kryptonite, non molotov, nella borsa

Creato il 17 aprile 2012 da Robomana
Come credo tutte le persone di buon senso, a parte forse i giornalisti di Libero e quelli del Foglio, i primi per malafede, i secondi perché spiriti troppo eletti per abbassarsi a sentimenti comuni, dalla proiezione di Diaz sono uscito incazzato e attonito, deciso ad andare su YouTube e Wikipedia e verificare quanto i fatti raccontati da Vicari fossero oggettivi e non romanzati o accostati in modo arbitrario. Per quanto brevemente, l'ho fatto, ho letto documenti e visto filmati e mi sono convinto nel mio piccolo che Diaz sia costruito in modo corretto e preciso. Non solo, come dice la scritta finale, perché basato sugli atti dell'inchiesta, ma perché la scelta di frammentare il punto di vista, per quanto scandita dall'orrido trucco digitale della bottiglia frantumata, lo rende credibile e moderatamente equidistante. Il film funziona, è onesto, non indugia in colpe che non hanno bisogno di essere sottolineate e usa la violenza con necessaria evidenza. Quello che funziona meno - ma se vogliamo qui il problema riguarda il cinema di genere, l'obbligo di schematizzare il caos per renderlo comprensibile - è la semplicità dell'impostazione narrativa, la divisione tra poliziotti coscienziosi e normali poliziotti stronzi (il poliziotto, se fa quello che gli hanno insegnato a fare, fa una cosa soltanto: sta zitto e si nasconde, non si mette a parlare in tv), così come l'insistenza sui black block tedeschi che se la danno a gambe e i poveracci che restano impigliati nel male della Storia, tra cui il pensionato, il giornalista e l'uomo d'affari.
Sorvolando per una volta sullo stile Procacci, una specie di spot patinato d'ambientazione squatter, comprendendo pure il poco comprensibile - e per fortuna poco utilizzato - mélange di messinscena e immagini di repertorio, e magari perdonando un po' meno quel girare in tondo della macchina da presa a seguire il movimento della ragazza torturata, quello che toglie a Diaz l'intensità del suo sdegno è il ricorso ai luoghi comuni sulla nostra società e sul mondo così come si rivela quando lo si inserisce a forza in un racconto. Un po' come la storia delle macchine d'epoca che sole devono fornire l'idea del viaggio nel tempo. Qui l'obiettivo, però, non è la ricostruzione di una decade passata, ma la restituzione di un clima culturale, la resa in termini narrativi di due idee di paese in contrasto, l'Italia con l'impulso fascista e repressivo e l'Italia solidale e idealista. Mi sta bene che nei giorni del G8, anche nell'ottica di una redistribuzione delle responsabilità, entrambe le parti fossero facilmente distinguibili, ma i due ragazzi del social forum che si conoscono, fanno l'amore e poi si separano quando lei, chitarra in spalla, sale sul furgoncino Wolkswagen e il poliziotto che compra alla fidanzata i biglietti per Rick Martin in cambio di quelli per i Black Crowes, nella loro immediata, un po' infantile evidenza spostano il discorso su un piano puramente stereotipato, come in un innocuo gioco di figurine.
Sono momenti brevi e forse insignificanti in un quadro generale che si salva e va dritto al segno, non c'è dubbio. Ma ieri pomeriggio, uscendo dalla sala e ripensando al film, non ho potuto fare a meno di chiedermi perché il cinema italiano debba sempre scegliere di essere così elementare ed ovvio, invece che complesso e stratificato; popolare sì, ma nella direzione di una semplicità che riduce ogni figura a macchietta. Quanta kryptonite nella borsa, insomma, si portano appresso anche questi film seri, in buona fede e in fin dei conti riusciti?

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