di Silvia Biasutti
recensione a Il massaggiatore cieco, di Catalin Dorian Florescu, Ed. Giunti, 2008
Florescu, classe 1967, è una piacevole sorpresa della narrativa romena di questi anni, che vive una sorta di “primavera letteraria” grazie alle numerose vicissitudini migratorie dei romeni. Ne “Il massaggiatore cieco” (“Der blinde Masseur” nell’edizione originale edita nel 2006 in Svizzera), l’autore narra l’epopea di Teodor, un emigrante romeno che dopo vent’anni di esilio in Svizzera torna in visita alla sua terra. Il protagonista era fuggito dalla Romania nei primi anni Ottanta con i genitori, attraversando a piedi la Jugoslavia di notte, giungendo fino a Belgrado e poi a Lubiana in treno, approdando, infine, in Svizzera.
Dopo anni di agio in terra elvetica, Teodor decide di ritornare in Romania, forse un po’ annoiato dai “paesaggi di quiete” della Svizzera e nostalgico dell’atmosfera atavica delle campagne romene. Durante gli anni giovanili, infatti, Teodor aveva raccolto dai contadini decine di storie su diavoli, spiriti e streghe in cambio di una bottiglia di grappa. Un’operazione di ricerca antropologica che aveva cercato di replicare anche in Svizzera negli anni dell’emigrazione, ma con scarsi risultati.
Nel suo viaggio in Romania, il protagonista fa capolino in una località termale, dove viene accolto da uno stravagante massaggiatore cieco appassionato di letteratura: “Ero approdato in una valle dove finiva il mondo e iniziava una terra selvaggia. Da qualunque lato la guardassi, era una terra perduta, dimenticata, che stava di là dall’Europa e al tempo stesso al centro. Dove non solo la strada non era battuta, ma anche il sapere. Una terra della cui esistenza in Occidente non importava a nessuno, e che non avrebbe lasciato alcun vuoto se dall’oggi al domani fosse stata sepolta, inghiottita, cancellata senza lasciare traccia.”