Pochi giorni fa, Kurt Cobain avrebbe compiuto quarantacinque anni. Già, quarantacinque. Un’età che stride come la sua voce, un’età che non potrà mai entrare nel ritratto di un eroe maledetto, ligio nel cliché del bello e dannato. Un eterno ragazzo di strada, che con la sua instabilità psichica, fisica ed emotiva, è riuscito a dipingere un affresco indelebile nell’epopea sociale di quel mondo meraviglioso che ci riempie l’esistenza: la musica. Un agnello che ruggiva per difendersi dalla crudeltà di una vita mai facile, che gli aveva regalato l’assenza del padre e l’austera severità del nonno («Vorrei avere più ricordi. Ho la sensazione di non avere mai avuto un padre. Mi manca una figura paterna con cui dividere le cose» avrebbe poi detto al biografo Michael Azerrad).
Kurt Cobain, e le sue spalle troppo esili per sorreggere il peso di un intero ed intangibile movimento, quel grunge che gridò al mondo la sua sofferenza, e che spazzò via tutto ciò che i giovani rocker (americani e non) avevano cantato e ballato fino a quel momento.
Seattle
Le tastiere, le scale complesse di basso e chitarra, le batterie a mille rullanti, mille piatti e mille tom che avevano imperversato fino ad allora, subirono l’offensiva del purismo grezzo, con i tecnicismi ben chiusi nello sgabuzzino. Così in realtà ci raccontò la Storia, così noi trentenni siamo cresciuti. Un contenitore ampio, quello del grunge, in cui ci hanno insegnato ad infilare il sociale, e mescolarlo con il suono di una chitarra distorta, o di una pelle di tamburo picchiata selvaggiamente. Già, perché annosa è la questione che ruota attorno a questo sporco e pazzo grunge, in realtà non identificabile con una corrente musicale.
A testimonianza di ciò, si può evincere con facilità quanto sia eterogeneo quell’universo che ci introdusse neiNinetees, che contribuì al pensionamento veloce di gente del calibro di Axl Rose, e che costrinse Hetfield e i suoi Metallica ad una forzata metamorfosi che segnò un declino purtroppo annunciato.
Il “grunge”, conio nato a metà anni sessanta dall’aggettivo “grungy” (sudicio, trasandato), a definire un cosmo dai confini estremamente elastici, per non dire assenti. Un movimento di rottura, tanto simile al punk inglese della fine dei Settanta, ma senza velleità politiche. Una ribellione senza forza, una sedizione senza volontà di rivalsa se non quella dell’autocommiserazione di un degrado esistenziale, di una noia da cui non si poteva certo uscire.
Chris Cornell e i Soundgarden
In questo contesto facili furono i fraintendimenti, come facilissime furono le strumentalizzazioni delle grandi majors, pronte a cogliere al volo l’opportunità di fornire al mondo una cassa di risonanza per una nuova epopea giovanile creata ad arte, ed intrisa di rifiuto verso se stessi, prima ancora che nei confronti della società. Un quadro dai contorni poco chiari e dai colori molto spenti, una rabbia che non deflagrava come le “Spanish Bombs” dei Clash, preferendo scivolare come la pioggia di Seattle. Una rabbia sporca e fragile, colpita dai buchi delle siringhe, coperti da maniche lunghe e pesanti camicie a quadrettoni.
I Pearl Jam di Eddie Vedder
Tutto ciò, se si parla di sociale. Eppure, a livello musicale, non si poteva certo parlare di compattezza di intenti, o di influenze. Quello che forse rimaneva stabile era il discorso poetico, oltre che la rottura del linguaggio. Cobain, ad esempio, era un figlio degli anni Settanta. Era il pargolo illegittimo di quel lato degli anni Settanta troppo incazzato per durare più di quattro-cinque anni. Un biondo messia di quel concetto di autodistruzione molto più “smart”, rispetto a quello dei vari Cornell e Vedder. Un rigurgito da tre accordi, partorito dalla voglia di distruggere il proprio garage, raccattando due o tre amici per strada, e affidandogli uno strumento mai visto prima. Ecco, Kurt era un punk. Nient’altro che un punk nato fuori dal tempo, e fuori dal contesto. Il progenitore del power trio che spopolò negli anni novanta, soprattutto (appunto) nella scena punk.
Perché in fondo, per citare lo stesso Cobain, «Punk significa libertà musicale. È dire, fare e suonare ciò che ti pare. Sul dizionario Webster, ‘nirvana’ significa libertà dal dolore, dalla sofferenza del mondo esterno: è quanto di più vicino alla mia definizione del punk rock». La “sua” personale definizione, appunto. Punk sì, ma con troppa sensibilità in confronto ad un Sid Vicious o a un Johnny Rotten, e troppa tristezza e semplicità in confronto ad un Joe Strummer. Triste, fragile e sensibile, ma pur sempre punk.
Questo, per smentire il discorso superficiale che passò in quegli anni, il discorso che ci costrinse ad accomunare temi forse simili, ma espressi in maniera completamente differente. Pearl Jam, Alice In Chains, Soundgarden, Nirvana. Tutte realtà diverse, tutte accomunate esclusivamente da un plumbeo teatro, quella Seattle tagliata dal vento e fucina di reflussi in rigoroso contromano, non a caso culla del movimento No Global del 1999. Questo, come già detto, se si volesse analizzare la sfera sociale. Ed il discorso è complesso e sottile, perché musica e cultura (soprattutto giovanile) si avviluppano in una danza strettissima.
Layne Staley (Alice in Chains)
Per quanto riguarda la musica però, il paragone è costretto, inevitabile perché indotto, ma fuori luogo. Cobain era il figlio dei Pixies, e il nipote dei Sex Pistols, dei Clash. Là, dove affondano le reali radici del pogo. Là, dove il linguaggio si è rotto per la prima volta. Gli altri, ognuno a modo suo, raccoglievano l’eredità di altre e diversissime influenze. Layne Staley riecheggiava nel metal, rompendo solo parzialmente il legame con quegli anni ottanta in cui il mostro Eddie imperversava sulle magliette dei giovani adolescenti (e non) che, costretti nei loro jeans troppo attillati per far trasparire le proprie ansie, scuotevano le folte chiome ai concerti degli Iron Maiden. La sua era un depressione asociale quanto quella di Cobain, ma forse più rassegnata. Meno deflagrante e più complessa.
Eddie, l’altro Eddie, quel Vedder che tutt’ora riecheggia e cavalca le classifiche, aveva invece saputo incanalare la tristezza in un rock più complesso e arguto, meno eccessivo forse, più maestoso, con richiami alla psichedelica inglese propria di generazioni senza tempo.
Chris Cornell aveva saputo attingere qua e là, creando un mescolanza di metallo e riot da strada, e trovando la ricetta vincente nei suoi Soundgarden. Una sorta di punk rock più elaborato, un progetto vincente, fino ad un certo punto. Vincente e perdente, come l’anima di Seattle.
(Pubblicato sul “Fondo Magazine” del 24 febbraio 2012)