Magazine Cinema
Kyūketsu (吸血, Sanguivorous). Regia e sceneggiatura: Yoshimoto Naoki. Fotografia: Watanabe Mitsuyo. Scenografie: Yagi Takashi. Musiche: Yoshimoto Naoki. Interpreti: Kakizawa Ayumi, Adachi Masaya, Yoshinaga Mutsuko, Murobushi Ko. Produttore: Nagamatsu Sachi. Distribuzione: Tidepoint Pictures. Durata: 56’. Prima mondiale: 12 novembre 2012.
Sanguivorous viene presentato come il primo film muto giapponese che ha come soggetto il vampirismo. La presentazione non è del tutto esaustiva in quanto non rende merito al pregevole linguaggio cinematografico di cui si avvale il regista Yoshimoto Naoki per raccontare la storia di una giovane donna affetta da disturbi fisici che scoprirà, con orrore, essere dovuti alla sua vera natura: la ragazza è infatti discendente di una stirpe di vampiri che sono approdati in Giappone cinquecento anni orsono, dalla Romania. Quando è col suo ragazzo a stento trattiene un istinto che, inevitabilmente, prenderà il sopravvento.
La trama del film, evidentemente molto scarna e semplice, è un pretesto per mettere in scena uno spettacolo visivo più vicino al cinema di sperimentazione che non a quello di intrattenimento: proiettato con l’accompagnamento musicale live dei jazzisti Nakatani Tatsuya alle percussioni ed Edward Wilkerson Jr. al sassofono, Sanguivorous rappresenta un eccellente esempio di commistione di linguaggi filmici che vanno dal cinema muto, con tanto di didascalie, alle riprese e agli effetti tipici del primo cinema digitale, il tutto sapientemente calibrato. Sprazzi di immagini, seppur minimi, ricordano le sperimentazioni di Stan Brakhage, e l’atmosfera di fondo è quella del surrealismo underground di filmmaker come Kenneth Anger e Richard Kern, ma senza estremizzazioni sceniche. È un film garbato, che riesce a rappresentare momenti erotici (quando nel parco lei tocca i fianchi di lui o quando, in seguito, succhia il sangue dal suo collo) del tutto scevri da qualsivoglia volgarità tipica giapponese. Il vagare della protagonista per i vicoli di una città cupa mentre si interroga sulla sua stessa natura ricorda a tratti – e agli antipodi da un punto di vista di velocità filmica – l’esistenzialismo cibernetico del Tetsuo di Tsukamoto Shinya.
Presenza importante è quella del danzatore di butoh (tecniche performative di danza sperimentale sviluppatesi in Giappone negli anni ‘50 del secolo scorso) Murobushi Ko, protagonista di una performance dall’indiscutibile forza visiva: non lo si confonda con uno pseudo-Orlok in quanto si farebbe un torto non solo al film ma a una tradizione di danzatori – il pensiero va subito all’immenso Tanaka Min – che hanno rivoluzionato la danza contemporanea.
Questi esseri, chiamati vampiri, di cui con estrema grazia Yoshimoto delinea i tratti esistenziali, sono destinati a rimanere intrappolati nell’oscurità, e ne sono coscienti: questa consapevolezza li riallaccia con prepotenza alle origini del cinema dei “non spirati”. Ci troviamo di fronte a un ottimo esempio di fenomenologia del vampirismo. [Ramona Ponzini]