“Ama e ridi se amor risponde \ piangi forte se non ti sente \ dai diamanti non nasce niente \ dal letame nascono i fior.” (Via del campo)
Sono 14 anni che Fabrizio De André ci ha lasciati. Quella notte dell’11 Gennaio “morì – per parafrasare una sua canzone – come tutti si muore”, lontano dalle luci della ribalta che lo avevano sempre intimidito, in quella fredda Milano che di certo non lo entusiasmava più di tanto.
Da sei mesi circa aveva scoperto quella strana convivenza con la malattia. Nessuno però voleva pensare al peggio: lui che aveva cantato più volte la morte non poteva non ricevere da questa un occhio di riguardo, un rispettoso “passo dopo”.
L’impressione immediata fu che un pezzo di storia della musica e della cultura italiana ci fosse stato sottratto per sempre, lasciando un’eredità preziosissima di musica e parole ma anche un vuoto dentro.
Ma quell’occhio attento sulla vita, quella sigaretta sempre accesa tra una parola e l’altra ci hanno accompagnati, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Molti se lo sono trovato come amico prezioso nei momenti più difficili e hanno scovato nelle sue canzoni quella dritta necessaria per superarli. Altri si sono innamorati al ritmo delle sue parole d’amore, divenendo così coautori di alcune canzoni perché come diceva Massimo Troisi “la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”.
Per tutta una vita ha parlato degli ultimi, dei traviati, di nani, puttane, indiani e bombaroli. Dietro ogni tragedia ha cercato di cogliere l’aspetto umano – e dunque ineluttabilmente soggetto ad errore –, quella giustificazione che c’è sempre, anche dietro il delitto più efferato. Ha lottato contro ogni forma di potere, usando l’intelletto e la penna come unica arma, schierandosi dalla parte di tutti quegli Indiani d’America che sempre più spesso vengono dimenticati e sacrificati sull’altare dei tanti Columbus Day da celebrare. Ha deciso di stare dalla parte di chi la storia non la scrive ma la subisce, sostenendo che “ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore”; perché a volte è il fato che sceglie per te, che ti fa nascere in un luogo piuttosto che in un altro, che ti regala un corpo da uomo ma anche una spiccata sensibilità femminile.
Lo sapeva bene, Fabrizio, che a volte il destino ci mette lo zampino e ti cambia la vita, basta un niente. Lo sapeva lui che voleva fare il cantautore ma si era quasi rassegnato ad una carriera da avvocato… quando arrivò Mina con la sua interpretazione de La canzone di Marinella a truccargli le carte, come amava ripetere scherzosamente.
È per questo che è sempre andato contro i discorsi da bar e le semplificazioni eccessive che offendono l’intelligenza, contro i pregiudizi, a volte giocandoci un po’, come per il giudice nano, che è fornito “della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente” e che “è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo”.
Si divertiva, Fabrizio, a mescolare sacro e profano, a passare dal serio al faceto mantenendo la stessa voce profonda e rassicurante, immensamente dolce.
Accanto ad alcune canzoni più “goliardiche” – ma non per questo meno significative – come Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Il fannullone e Un giudice, troviamo autentici capolavori della poesia, strofe immortali che condensano in poche parole, pesate, l’essenza dell’amore e della bellezza, legati non di rado alla sofferenza. Ma non si tratta di poesia, Fabrizio De André non sarebbe stato contento di passare per poeta ed al solito, tra divertimento ed imbarazzo, avrebbe risposto così: “Benedetto Croce diceva che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie. Dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore”.
Più volte ci troviamo a definirlo “poeta” per sottolineare le differenze con quelli che comunemente chiamiamo cantautori. Ma Faber non ha bisogno di categorie, di vuoti nominalismi che lo imprigionino in una definizione asettica e riduttiva. L’arte vera è una commistione di generi, un’eterna intuizione che resiste al passaggio del tempo e, spesso, ne è l’antidoto.
L’originalità e la sagacia hanno sempre contraddistinto la sua produzione. Come nel 1970, quando in piena contestazione studentesca si presenta al pubblico con La buona novella, un album apparentemente “in direzione ostinata e contraria”. In pochi capirono che l’intento dell’autore era più rivoluzionario di una bomba: il potere costituito – la Chiesa, nella metafora religiosa – detta le leggi ma le infrange puntualmente.
Prendeva spunto da tutto ciò che lo colpiva, ci lavorava su e ne tirava fuori un soggetto autonomo che brillava di luce propria. Nel 1971 uno dei suoi album più belli, Non al denaro non all’amore né al cielo contribuì a far conoscere in Italia l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, dalla quale egli aveva tratto ispirazione. Per la canzone di Marinella prese spunto dall’omicidio di una ragazza del quale aveva letto sul giornale e volle ancora una volta sparigliare le carte al destino, trasformandola in una storia d’amore.
Figlio della Genova degli anni ‘40, autentica fucina di talenti come Paoli, Tenco, Lauzi e Bindi, i fondatori della scuola genovese dei cantautori, decise di trasferirsi in Sardegna, a Tempio Pausania, comprando la tenuta dell’Agnata. E si integrò perfettamente in quella terra ospitale dai riti così radicati da sembrare quasi ancestrali. Neanche il rapimento da parte dell’anonima sequestri sarda, che patì insieme alla compagna, e poi moglie, Dori Ghezzi lo indusse a lasciare quella terra, nella quale gli odori ed i sapori del Mediterraneo erano ancora incontaminati e quindi più facilmente percepibili.
E con l’album Crêuza de mä quel Mediterraneo che aveva nella mente e nel cuore – fatto di scambi interculturali, di circolazione di idee, di suoni antichi che rimbalzano di porto in porto – prende forma: un autentico capolavoro interamente in lingua ligure, una nenia che culla i sensi e l’anima al ritmo della risacca.
Molte delle sue canzoni sono diventate celebri – da Bocca di rosa a La guerra di Piero, passando per Via del campo e Don Raffaé – al punto da essere conosciute ed apprezzate dalle nuove e vecchie generazioni.
L’ultimo suo album – Anime Salve, scritto con Ivano Fossati – gli valse la Targa Tenco 1997. Il disco si chiude con Smisurata preghiera – un’invocazione “ad una sorta di entità parentale molto più potente di noi” in difesa delle minoranze – ed è per questo considerato il suo testamento spirituale. Ci permettiamo di segnalare anche, come testamento spirituale, il discorso introduttivo a La città vecchia, autentico vangelo di tolleranza e filantropia.
Ci manca Fabrizio De André.
Avremmo voluto vedere ancora la sua faccia per bene e sapere che in qualche posto stava lavorando a qualcosa di straordinario. Avremmo voluto conoscere il suo pensiero sul potere dei giorni nostri, sulla società in continuo fermento, sull’amore che spesso diventa violenza e non ama più. Avremmo voluto chiedergli, e qualcuno di noi tra sé e sé l’ha fatto mille volte, cosa si prova a scrivere La canzone dell’amore perduto ed a girare poi per le strade come se nulla fosse, noncurante di essere riuscito a carpire la bellezza una volta per tutte, in quei quattro minuti scarsi che separano l’amore dal pianto.
Written by Nino Fazio